La tua lama taglia, ma è dolce. La mia carne fa male. Ma guarirà.
Carlos Drummond de Andrade
Nel corso della stesura di questa nostra storia del diavolo, la coscienza ci rimordeva un po’. Come abbiamo detto, piuttosto che diavolo noi preferiamo usare il termine demonio. Entrambi sono di origine greca, diavolo da dia ballein, “dividere, separare”, demonio invece da daimonios, “sovrumano, venerabile, divino, ottimo, beato”, e, insieme, “tristo, misero, pessimo”. Quest’aggettivo viene a sua volta dal verbo daio, “dividere, disseminare, bruciare, divampare”. Il nostro problema di coscienza era questo: sapevamo che c’è una trattatistica greca che riguarda il daimon, con un testo in particolare, e nella prima parte di questo articolo avevamo un po’ fatto finta di niente. Ci siamo pentiti e vogliamo fare ammenda. Nella nostra personale storia del diavolo ci deve essere anche una disamina del Simposio di Platone.
Molti altri autori greci hanno scritto del daimon. Esiodo usa questo termine per riferirsi alle anime degli uomini vissuti nell’Età dell’Oro, che circondano la terra e vegliano sui vivi. Eraclito sostiene “demone è all’uomo l’indole”. Per Socrate è una voce interna, che lo dissuade dal fare determinate cose, senza mai suggerire nulla. Nella Repubblica, Platone cita il mito di Er, guerriero tornato dalla morte che spiega ciò che succede prima di venire al mondo. Ciascuno di noi sceglie il proprio demone, ovvero un modello di vita da perseguire, un’immagine, una forma di pensiero, un’idea di virtù. “La virtù non ha padroni; quanto più ciascuno di voi la onora, tanto più ne avrà; quanto meno la onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa”. Secondo il Sofista, il daimon è preposto alla produzione di immagini. Nel Fedro rappresenta la mania, la follia delle Muse. E’ quindi una possessione divina che, dall’esterno, colpisce l’animo del poeta e lo costringe a creare.
L’AMORE
Il Simposio di Platone è un trattato complesso, strano e misterioso sulla natura dell’amore. Nel contesto di una cena festosa a cui presenzia il gotha della cultura ateniese, si decide ad un certo punto di smettere di bere, perché ciascuno dei partecipanti deve formulare una sua definizione di Eros. Prima di arrivare al concetto che ci preme, l’amore come demone, ci sono altri punti che hanno suscitato il nostro interesse. Li passeremo in rassegna in ordine a-sistematico, solo in base alla fascinazione che ci hanno trasmesso.
Il Simposio distingue subito l’amante dall’amato. Sono due entità divise, ognuna con un proprio ruolo, un’etichetta di comportamento da seguire, delle specifiche anagrafiche. Non c’è nessuna democratica fusione, nessuna comunanza romantica fra di loro. L’amore risulta in qualche modo irrelato. Non congiunge davvero e non è paritario. È un sentimento solitario dell’amante che l’amato accetta. Una malattia, che si prende dagli occhi dell’amante, quando l’amato nota il modo in cui l’amante lo guarda, perché lo vuole. L’amato vede se stesso nell’amante come in uno specchio, e la malattia colpisce entrambi. Nel Fedro questo processo è illustrato in modo ancora più specifico, per cui la bellezza dell’amato si configura come fonte di quel flusso “che Zeus, quando si innamorò di Ganimede, chiamò flusso d’amore. Scorrendo abbondante verso l’amante, dapprima penetra in lui, e dopo che lo ha completamente riempito, trabocca. E come un colpo di vento o un’eco, rimbalzando dai corpi levigati e solidi, ritornano proprio là da dove sono pervenuti, così procede il flusso della bellezza, ritornando per rimbalzo, attraverso gli occhi, al bello amato. E attraverso gli occhi può per sua natura arrivare all’anima; e, dopo esservi giunto e averla sollecitata, riempie di Eros anche l’anima dell’amato.”
L’amante fa cose servili, cose che nessuno schiavo farebbe mai. Segue l’amato, dorme davanti alla sua porta, supplica. Ma questa servitù volontaria è qualcosa di bello sia per l’uno che per l’altro. Nonostante tutto, l’amante è superiore all’amato, perché ha dentro di sé quello che inizialmente è definito il dio, Eros. E anche, naturalmente, perché è un maschio adulto.
PEDERASTIA
Dobbiamo a questo punto fare un inciso sui crismi sociali dell’Antica Grecia.
La civiltà della polis ateniese era un cosmo estremamente fallocentrico e patriarcale, costruito dagli uomini dell’élite per gli uomini dell’élite. Le donne stavano rinchiuse nei ginecei per fare figli e attendere alla casa, oppure erano concubine che dovevano prendersi cura del loro uomo, prostitute di strada perlopiù schiave, o al massimo cortigiane colte, ricche e ornate, da sfoggiare durante le occasioni pubbliche. L’amore e i rituali di corteggiamento non erano possibili nei confronti di questa classe di esseri inferiori, segregati e asserviti, oppure in vendita.
Gli uomini liberi si innamoravano quindi dei ragazzini della loro stessa classe sociale. Si infatuavano dei loro corpi piccoli e dei loro lineamenti delicati, della loro fragilità, come se fossero ragazze. L’Eroticos dello Pseudo-Demostene mostra bene questo parallelismo, rilevando di quale “sospettosa attenzione un ragazzo fosse normalmente oggetto da parte del suo entourage: lo si osserva, lo si spia, si commenta il suo abbigliamento, si fanno osservazioni sulle compagnie che frequenta; intorno a lui ferve la maldicenza; gli spiriti malevoli sono pronti a biasimarlo se si mostra arrogante o lezioso, ma si affrettano a stigmatizzarlo se manifesta un’eccessiva condiscendenza”. Il ragazzino era sotto gli occhi di tutti e doveva essere molto accorto nel concedere i propri favori. L’uomo infine prescelto sarebbe stato colui che lo avrebbe introdotto alla vita politica, spiegando regole non scritte di comportamento, svelando segreti, stipulando alleanze e aprendo porte. Il ragazzo non doveva accettare troppi spasimanti, né sgarrare in alcun modo dal protocollo di condotta che ci si aspettava da lui. Altrimenti si esponeva al disonore, al disprezzo, all’abbandono e alla solitudine. Tutta la sua futura vita sociale poteva esserne compromessa.
Nell’amore pederastico, gli uomini adulti dovevano avere un ruolo a tutti gli effetti attivo. Questo partiva dal corteggiamento. Pedinavano quindi i movimenti dei ragazzi, si sfiancavano di esercizi nelle palestre per approcciarli, cercavano di seminare i loro pedagoghi, inviavano regali e inviti a cena. Sapevano che la grazia femminea dei loro amati era effimera, e che c’era una scadenza anche per il beneplacito sociale rispetto alla relazione. Potevano concupirli finchè non erano pienamente sviluppati, fino al momento in cui spuntava loro la barba.
Nell’Antica Grecia era considerato naturale che un uomo adulto sentisse dell’attrazione sessuale per la bellezza efebica degli adolescenti. Era proprio questo peculiare tipo di bellezza a scatenare la bramosia. La società lo accettava e lo incoraggiava, i genitori speravano di crescere dei bei bambini da avviare alla carriera politica, e i legami di questo tipo erano supportati da istituzioni militari, pedagogiche e religiose. Il comportamento dell’adulto non era mai posto troppo in discussione, se non nei casi eclatanti di stupro. Soltanto quello del ragazzo era altamente problematizzato: non doveva mai mostrarsi troppo facile, sfacciatamente avido di favori, compiacente o dissoluto. Tutto quello che faceva in questa fase della sua educazione, una volta raggiunta l’età adulta, poteva diventare uno strumento di distruzione diffamatoria nelle mani dei suoi avversari politici. Funzionava come una sorta di slut shaming, fatto a colpi di retorica nell’agorà. Ci sembra quasi di sentirli, i cori isterici di accuse di passività, prostituzione e virilità insufficiente per governare gli altri. A volte però la pubblica opinione si trovava davanti avversari formidabili, politicamente perfidi, maestri dell’arte della guerra e retori eccezionali, che sarebbe stato molto poco saggio accusare di simili facezie. Ad esempio Alcibiade.
Ma torniamo alle prime fasi dell’amore. L’esito del corteggiamento era sempre incerto, e questa indeterminatezza ne aumentava il fascino. Dopo un opportuno periodo di rifiuti, i ragazzini erano liberi di scegliere se concedersi o meno, e a chi. Prima o poi però arrivava il momento di “cedere”, “sottomettersi”, “mettersi al servizio”, “fare la cosa”. E, quando questo avveniva, loro dovevano opporre resistenza, cercare di sfuggire, tirarsi indietro, rifiutare, differire. Più di ogni altra cosa, dovevano mostrare una freddezza assoluta. Se non volevano esporsi al disgustato disprezzo del loro amante, non potevano mai mostrare di provare piacere. Lo attestano le fonti scritte e i temi ricorrenti della pittura vascolare. C’è una scena che viene rappresentata spesso: l’uomo mette una mano fra le gambe del ragazzo, mentre con l’altra mano solleva il suo mento per guardarlo negli occhi. Nonostante l’alto contenuto erotico della circostanza, l’adolescente non viene mai rappresentato in stato di eccitazione. Non deve prenderci gusto, deve farlo solo per compiacere il suo amante, per dimostrargli il suo rispetto, la sua ammirazione e la sua gratitudine. In linea teorica c’erano determinate pratiche, considerate abiette, a cui potevano essere sottoposti soltanto gli schiavi e le donne. Non quelli che a breve sarebbero diventati dei cittadini liberi a tutti gli effetti, e quindi non più oggetti di piacere, ma maschi attivi a loro volta. Molto spesso poi, nell’intimità, le teorie sull’ortodossia di comportamento sfumano, si confondono, vengono meno. È chiaro che, al di là del sesso, i ragazzi dovevano fare i conti con la crudeltà mentale dei loro amanti, data dalla differenza di età, di esperienza e di status. Era amore a tutti gli effetti. L’unico vero amore per i Greci, e proprio di questo tipo di amore parla il Simposio. Ma deve essere proprio l’amore in sé, perché tutti potremo riconoscerci nelle dinamiche che il testo va ad illustrare.
DOMINANZA
Fra gli invitati al simposio, il medico Erissimaco sostiene che l’amore realizza la coincidenza degli opposti cara ad Eraclito e pone l’accento sulla temperanza. Per i Greci, sapersi dominare nelle passioni, nel cibo e nell’alcol, ma soprattutto nei sentimenti, era la virtù virile per eccellenza, perché l’eccesso era indice di debolezza. Michel Foucault riferisce che nelle pratiche amorose di questa cultura “l’eccesso e la passività sono, per un uomo, le due principali forme di immoralità”. Ciò che può essere definito come padronanza, freddezza, sprezzatura o coolness, era visto come una forma di potere sugli altri, quindi una virtù. L’epilogo del testo lo confermerà.
L’ANDROGINO ED EFESTO
Il commediografo Aristofane sostiene che l’amore cura tutti i mali, ma soprattutto racconta il mito dell’androgino. In un tempo leggendario, gli esseri umani erano conglomerati tondeggianti e mostruosi, fatti con due corpi. Potevano essere corpi di maschio e femmina, di origine lunare, femmina e femmina, dalla terra, oppure maschio e maschio, dal sole. L’androgino era dotato di grande forza e superbia, tentò di attaccare gli dei ed essi lo punirono, un po’ come il nostro Dio punisce Lucifero. Secondo la vulgata comune, la caduta di Lucifero è causata dalla sua superbia, mentre, secondo il Corano, dal suo rifiuto di servire Adamo. Questo rifiuto è provocato dalla natura del suo amore per Dio, totale e indivisibile. Lucifero cade e si scinde, dall’amore passa all’odio, diventando Satana.
Anche l’androgino viene condannato alla divisione e al dolore perpetuo. Il Simposio racconta che le divinità che tagliano in due l’androgino sono il re normativo Zeus, insieme con l’implacabile, sapiente Apollo.
“Allora, dopo che l’originaria natura umana fu divisa in due, ciascuna metà desiderando fortemente l’altra metà che era sua, tendeva a raggiungerla. E gettandosi intorno le braccia e stringendosi forte una all’altra, insieme morivano di fame e di inattività, desiderando fortemente di fondersi insieme, perché ciascuna delle due parti non voleva fare nulla separata dall’altra.”
Si desidera quindi l’altro per risanare uno squarcio originario che ci si porta dentro. Dalla divisione degli androgini lunari vengono generati quelli che oggi chiamiamo eterosessuali. Dall’androgino di terra nascono quelle che Platone chiama “le amiche delle cortigiane”. Infine ci sono “quelli che sono nati dalla divisione del maschio”, che “rincorrono i maschi e, finchè sono fanciulli, appunto perché sono parti di maschio, amano gli uomini e godono di giacere e di stare abbracciati con gli uomini. E sono proprio questi i fanciulli e i giovanetti migliori, perché per natura sono i più virili.”
Qui Aristofane mostra ironicamente di andare contro i moralismi della sua cultura, valorizzando a livello mitico i fanciulli che dimostrano coinvolgimento in quello che sono tenuti a fare con i loro amanti. L’omosessualità era una categoria di pensiero inesistente per i Greci, per i quali era normale iniziare la propria educazione sentimentale giocando con i propri coetanei e concedendosi a uomini adulti. Una volta raggiunta la maturità, intorno ai trent’anni, era altrettanto normale sposarsi a scopo riproduttivo e intrattenersi con concubine, etere e ragazzi più giovani. La pulsione che spinge verso i corpi dotati di bellezza, a prescindere dal loro genere, era considerata sempre la medesima. Spesso i cittadini liberi avevano anche un amante di lunga data del loro stesso sesso, più grande di loro o coetaneo. Nel Simposio ci si interroga poi proprio sulla natura dell’unione che crea le coppie longeve.
“Quelli che stanno insieme per tutta la vita sono appunto costoro, i quali non saprebbero neppure dire ciò che vogliono ottenere uno dall’altro. Infatti non sembrerebbe essere il piacere d’amore a far stare insieme gli amanti l’uno con l’altro con così grande attaccamento. Ma è evidente che l’anima di ciascuno di essi desidera qualche altra cosa che non sa dire, oppure presagisce ciò che vuole e lo dice in forma di enigmi.”
Questo desiderio ineffabile rimane misterioso. Non viene svelato, ma offuscato dall’epifania di Efesto, lo storpio dio del fuoco, il mago sciamanico capace di modificare tutta la materia. Armato dei suoi attrezzi da fabbro divino, Efesto compare agli amanti che giacciono insieme e chiede loro: “Che cosa volete, uomini? È questo che volete, diventare la medesima cosa, uno con l’altro? Io posso fondervi nella medesima cosa.”
Tutti quanti noi, colti in queste circostanze, qualunque sia la tipologia di androgino da cui proveniamo, di terra, di luna o di sole, risponderemmo di sì. Tutti. Nessuno escluso. Platone dice che nessuno si deve opporre ad Eros. Bisogna portare l’amore a compimento, altrimenti si incorre nell’ira degli dei.
FORZA E SACRIFICIO
Agatone, il più giovane e bello degli invitati, che sarà per lungo tempo l’amante di Euripide e a cui il simposio è dedicato, dice che Eros è un giovane delicato e flessuoso, che ha in odio la vecchiaia. Nonostante la sua apparenza fragile, è più forte perfino di Ares, che rappresenta la violenza. “Padre di delicatezza, di mollezza, di tenerezza, di grazie, di desiderio e di bramosia”, l’amore produce pace, riposo e sonno quando si è nell’angoscia. “Ci spoglia dell’alterità e ci riempie di affinità. È il fondatore di tutti i convegni come questo nostro, che ci riuniscono insieme gli uni con gli altri. Fa da guida nelle feste, nelle danze e nei sacrifici.” La spinta erotica è quindi la stessa che presiede il sacrificio, la macellazione sacra di animali e persone in nome di un bene superiore nebuloso, frutto di un accordo sociale. Eros è in effetti visibile in tutta l’iconografia sacra cristiana, nella furia impassibile dei carnefici e nelle estasi definitive dei martiri.
IL DEMONE
La star del Simposio, Socrate, parte con certe osservazioni che non condividiamo. Dice che non c’è amore delle cose brutte, ma in realtà si ama in modo perverso anche il sordido, il vile e il falso. Socrate imposta quella che sarà la sua argomentazione dicendo che l’amore è desiderio di ciò di cui si sente la mancanza, di ciò che non si possiede. Il filosofo sostiene di essere stato istruito sui misteri d’amore da una donna straniera, Diotima di Mantinea, grande sacerdotessa capace con la sua arte sacra di proteggere Atene da un’epidemia di peste. Diotima rivela a Socrate che, se si desiderano solo le cose che si credono buone e belle, e si desidera ciò che non si possiede, Eros in sé non è né buono né bello. E quindi non può essere un dio. Eros è dàimon mègas, un grande demone, intermediario fra il divino e l’umano. “Infatti tutto ciò che è demoniaco è intermedio, fra dio e mortale.”
Anche i Malakim, gli ambigui, demoniaci angeli dell’Antico Testamento, spesso sovrapponibili con un’istanza malefica più o meno integrata in Dio, sono degli spiriti mediatori fra il divino e l’umano. Il demoniaco quindi ha natura interstiziale: sta negli spazi fra una cosa e l’altra, sulla linea dei confini, negli stati indifferenziati dell’essere in cui non esiste il principium individuationis, nel caos e nei sogni.
“Il dio non si mescola all’uomo, ma grazie a questo demone gli dei hanno ogni relazione e colloquio con gli uomini. Tali demoni sono molti e svariati ed Eros è uno di essi.”
Il suo compito è “interpretare e portare agli dei le cose che vengono dagli uomini, e viceversa. Degli uomini le preghiere e i sacrifici, e degli dei i comandi e le ricompense per i sacrifici.” Noi riteniamo che le preghiere rappresentino i nostri desideri, che ci devono essere chiari e ben formulati, che i sacrifici siano gli atti concreti fatti per far avverare i desideri che abbiamo formulato, e che i comandi degli dei siano le intuizioni, le idee, la presenza di spirito per trasformare i desideri in qualcosa di presente sul piano della realtà.
Eros, il desiderio, “stando in mezzo fra gli uni e gli altri (uomini e dei), opera un completamento in modo che tutto sia ben collegato con se medesimo.”
IBRIDO
Diotima contraddice il mito della Teogonia citato all’inizio del Simposio da Fedro, secondo cui Eros nasce per primo dal Caos primordiale, assieme a Thanatos. La sacerdotessa sostiene che Eros sarebbe invece figlio di due genitori che non hanno nulla a che fare uno con l’altro, Poros, Espediente (a sua volta figlio di Metis, Ingegno), e Penia, Povertà. Il demone concepito dai due ha caratteristiche di entrambi, “non è né bello né delicato, ma duro e ispido, scalzo e senza casa. (…)” Ma è anche pieno di risorse, tenace, “straordinario incantatore, preparatore di filtri, sofista”. È ibrido per natura, ciò che è amato “è bello, delicato, perfetto e beatissimo. L’amante invece ha tutt’altra forma.”
LA DISTRUZIONE E LA GENERAZIONE, FINO
ALL’EPILOGO
Eros è la spinta che porta a generare, in tutti i sensi, non solo in quello riproduttivo. È la forza che crea il nuovo, anche nell’individuo, nel corpo e nell’anima, cambiando “modi di fare, abitudini, opinioni, desideri, piaceri, dolori, paure.” Anche le conoscenze in sé vanno incontro al medesimo principio, perché si impara e si disimpara in continuazione. Le menti belle, unite dall’amore, si spronano vicendevolmente a generare, quella più feconda incita l’altra e insieme creano delle cose.
Quella di Eros è la stessa forza che ci porta a voler conoscere le cose, che siano oggetti di pensiero o esseri viventi. Il desiderio di conoscenza è una forma di amore che conosce bene anche il diavolo di tradizione cristiana, lo spirito della logica, quello che induce a distinguere il bene dal male, il nume degli inventori e degli eretici.
Socrate sostiene che l’amore è una scala. Il primo gradino è l’amore dei corpi. “Sarebbe una grande insensatezza credere che non sia una e identica la bellezza che traluce in tutti i corpi.” Poi si passa insieme attraverso vari stadi, dall’amore dei corpi a quello delle anime, dall’amore della conoscenza all’amore della cosa pubblica. Si arriva infine all’amore del bello in sé. Ecco che cosa aspetta chi approda alla fine della scala:
“Costui, pervenendo ormai al termine delle cose d’amore, scorgerà immediatamente qualcosa di bello, per sua natura meraviglioso (…), qualcosa che sempre è, non nasce e non perisce, non cresce e non diminuisce, e inoltre non è da un lato bello e dall’altro brutto, né talora bello talora no, né bello in relazione ad una cosa e brutto in relazione ad un’altra, né bello in una parte e brutto in un’altra, né bello per alcuni e brutto per altri. E neppure il bello si mostrerà a lui come un volto, o come delle mani, né come alcuna altra delle cose di cui il corpo partecipa, né si mostrerà come un discorso o come una scienza, né come qualcosa che è in qualcos’altro, ad esempio un essere vivente, oppure in terra o in cielo o in qualcos’altro, ma si manifesterà in se stesso, per se stesso, con se stesso, come forma unica che sempre è.”
Al di là del concetto platonico delle idee che ci permettono di pensare il mondo, a noi sembra che questo bello in sé, così stupefacente, assoluto e definitivo, non sia altro che la morte.
_ Per motivi di lunghezza e di leggibilità dell’articolo, finiamo qui la sua prima parte. Proprio sul più bello. La seconda parte è già pronta, Stay Tuned_
Bibliografia
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Platone, Simposio, Bompiani, 2000.
http://www.jungitalia.it/2014/01/05/daimon-demone-creativo-psicologia-e-tradizione/
https://it.wikipedia.org/wiki/Pederastia_greca
https://it.wikipedia.org/wiki/Ginnasio
https://it.wikipedia.org/wiki/Alcibiade
http://www.anticorpi.info/2012/12/nella-morsa-del-daimon.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Demone