Icone gay, quindi. Grande Madre Wikipedia ci spiega la differenza fra icona e idolo: icona, vuole dire immagine, dal greco εἰκών -όνος derivanti dall’infinito perfetto eikénai, traducibile in essere simile, apparire. Il termine idolo invece viene dal greco εἴδωλον (éidõlon) figura, simulacro derivante a sua volta da εἶδος (eidos) “forma”, “aspetto”.
Le nostre magnifiche fonti integrano raccontandoci che l’idolo richiama in maniera sostanziale la cosa o l’essere rappresentato, è il suo indissolubile doppio, fa parte della sua specificità ed identità, come l’ombra. L’icona invece è la rappresentazione, l’esteriorità, la forma, il contorno perimetrale senza contenuto.
Al di là delle tendenze sessuali, il biglietto per entrare nell’olimpo delle icone gay è conferito dalla bellezza e dal glamour, ma anche dall’eccesso, che sia eccesso estetico o eccesso esistenziale. Altri must per essere un’icona gay: il fondamento kitsch, la decadenza, il melodramma, e soprattutto una qualità malinconica, triste, che può avere a che fare con l’abbandono, l’idea della fine della festa, della perdita. Qualcosa di assolutamente ineffabile.
Vediamo quindi chi mette la nostra vecchia checca nostalgica sull’altare della sua malinconia.
ROCK HUDSON, IL GIGANTE
Rock Hudson, il Gigante, era alto un metro e novantasei. È stato uno dei primi della stirpe dei bambini dislessici che hanno cercato la redenzione tramite il mestiere dell’attore, ed è stato anche uno dei primi personaggi famosi a morire per AIDS. Meccanico in marina, poi camionista, viene salvato nella migliore tradizione hollywoodiana da un agente che nota il suo fisico statuario e gli procura un provino. La sua immagine viene modellata sui desideri del pubblico femminile, ma Rock Hudson nella vita privata era omosessuale. Gli Studios per cui Hudson lavorava negli anni Cinquanta e Sessanta hanno pianificato un’oculatissima opera di mistificazione per confondere le acque sulla sua vita privata, tanto da organizzare un matrimonio di copertura con la sua segretaria. La mistificazione lo accompagnò anche nell’ultimo periodo della sua vita, quando cercò di dissimulare la sua malattia. Mentre il suo corpo da gigante si dissolveva, Rock Hudson proclamava di essere anoressico, anemico, affetto da un cancro al fegato, qualsiasi cosa fuorchè malato di quella che negli anni Ottanta era considerata ancora la peste – quando non il castigo divino – degli omossessuali. Come nella migliore sceneggiatura hollywoodiana, alla fine Rock Hudson ha avuto il coraggio di dire la verità. All’epoca si trovava in un ospedale in Francia. Non appena disse di avere l’AIDS, l’ospedale si svuotò per paura del contagio. I membri del suo staff faticarono perfino a trovargli i biglietti per l’aereo di ritorno, e tutto il cast della produzione a cui lavorava Rock Hudson in quel momento si sottopose a visite mediche. Dopo la morte fu beatificato, perché il suo caso portò all’attenzione dei media mondiali la vera natura di una malattia devastante, che evidentemente non colpiva solo i reietti.
DOLLYWOOD!
Unghie chilometriche, cotonata stratosferica, seno incredibilmente grande, incessanti restauri conservativi a base di silicone, botulino e chirurgia, Dolly Parton è un’assoluta icona gay. All’apparenza più pornostar californiana che transessuale, Dolly è famosa anche per il suo senso dell’umorismo sfacciato. Suo padre era un preacher man, la sua famiglia era povera, e fra lei e i suoi fratelli arrivavano al numero tondo degli apostoli di Gesù. Dolly Parton è la regina del country, grazie anche al grande Johnny Cash, che la conobbe da giovanissima e la incoraggiò a proseguire la sua carriera. Dopo carriere multiple nel country, nel pop, nel cinema, Dolly raggiungerà l’apogeo kitsch fondando Dollywood, un parco di divertimenti dedicato a se stessa, in cui si fanno sconti ai soldati nella miglior tradizione repubblicana. Dolly Parton, eccessiva, plastificata, ultra-americana, decisamente camp.
CARMEN MIRANDA, TUTTI-FRUTTI LADY
Carmen Miranda è l’attrice degli anni Quaranta finita sul bollino blu della banana Chiquita, famosa per i suoi enormi, barocchissimi e scicchissimi copricapi in stile tropicale, composti di farfalle, frutta e fiori. È considerata una delle prime esponenti del Tropicalismo, un movimento artistico e culturale che mischia musica tribale e rock ‘n’ roll, avanguardia, tradizioni brasileire, con un surreale occhio di riguardo al cannibalismo, come emerge dal Manifesto Antropòfago redatto dal poeta Oswald de Andrade nel 1928. Carmen Miranda da piccola adora cantare e ballare, ma a quattordici anni inizia a lavorare in un negozio di cravatte, per pagare le spese mediche di sua sorella, malata di tubercolosi. Dopo le cravatte è la volta di una boutique, guarda caso, di cappelli, di cui Carmen avvia con successo anche una produzione in proprio. Prima di diventare attrice, Carmen è stata una famosa cantante di samba. Si è distinta in mezzo alle altre attrici latine di Hollywood per il suo look, per gli zatteroni rocamboleschi, in cui pare nascondesse la cocaina, e per i cappelli di frutta, che le hanno valso il nomignolo di The Lady with Tutti-Frutti Hat. Accusata dai media brasiliani di incarnare uno stereotipo razziale, Carmen Miranda è morta di eccessi, un infarto dovuto a incessanti mix di alcol, tabacco e anfetamine. Ebbe un mancamento durante uno show, ma da diva inossidabile si rimise in piedi e terminò il suo numero. The show must go on. La morte rimane sempre fuori campo. La colse a casa, durante la notte.
JOAN CRAWFORD E IL LABORATORIO
JoanCrawford era bellissima. Occhi grandi, sensuali ed infidi, zigomi alla Marlene, bocca carnosa. Uno dei suoi migliori amici era William Haines, star di Hollywood degli anni Venti, la cui carriera venne affossata dal capo della Goldwin Mayer dopo che gli agenti della buon Costume lo trovarono a letto con un militare. Dopo la fine della sua carriera, Haines si reinventò come arredatore, e Joan Crawford si avvalse dei suoi servizi per allestire il Laboratorio, una stanza piena di apparecchiature per trattamenti estetici, illuminata con la luce al neon che si usava nelle bettole per far sgomberare i beoni ritardatari. “Se il tuo trucco ti valorizza sotto questa luce, puoi affrontare qualsiasi obiettivo.”, le diceva William Haines. Joan Crawford fu per tutta la vita nemica irriducibile di Bette Davis. Le due dive si fecero una guerra senza esclusione di colpi a suon di pettegolezzi maligni. Bette sapeva di essere più brava, di avere più temperamento, e di lavorare di più, ma Joan era più glamorous. Joan Crawford era ossessionata dalla pulizia, eppure aveva un’igiene personale così scarsa che le inservienti delle lavanderie maneggiavano i suoi vestiti con dei bastoni. La figlia adottiva Christina la descrive come un’etilista sadica, con raptus alcolici notturni in cui entrava nella camera dei bambini e faceva a pezzi tutto. Nell’ultima fase della sua vita, Joan militò nella setta religiosa dei Cristiani Scientisti, e divenne reclusa in casa, proprio come Blanche Hudson in Che Fine Ha Fatto Baby Jane. Però al suo funerale c’era Andy Warhol.
JOAN COLLINS, AKA ALEXIS
Ciò che accomuna Joan Crawford a Joan Collins, a parte il nome, è che entrambe confutarono lo stereotipo della prima giovinezza come età di massimo splendore femminile. Sia Crawford che Collins raggiunsero l’apogeo della loro bellezza intorno ai quarant’anni. Collins però superò Crawford in consapevolezza, infatti la sua carriera ebbe un’impennata durante la mezza età grazie al ruolo di Alexis in Dynasty. Epiche e tutt’ora cliccatissime su You Tube rimangono le risse verbali e fisiche fra Alexis e Krystle. Alexis era talmente perfida ed iconica da risollevare gli ascolti fino a quel momento sonnacchiosi della serie, e da piacere a tutti, perfino alle femministe. Perché nonostante le spalline da giocatore di rugby, il trucco impeccabile e i visoni, Alexis era una donna con le palle. Come la maggioranza delle icone gay, Joan Collins si distinse per una vita sessuale molto attiva, tanto da contare cinque mariti e migliaia di amanti, fra cui Warren Beatty, Terence Stamp ed un diciottenne Dennis Hopper.
PAUL NEWMAN, LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA
A quanto pare anche Paul Newman aveva un insaziabile appetito sessuale. Oltre che essere un gran donnaiolo, Newman venne iniziato all’amore omossessuale mentre era sotto le armi, e a Hollywood ebbe storie di sesso con Marlon Brando e James Dean, di cui si innamorò follemente. Tanto che dopo la tragedia prese sotto le sue calde ali lo storico fidanzato sedicenne di Dean, Sal Mineo. Quando Newman lo lasciò, Sal per ripicca gli sedusse il figlio, portandolo sulla strada della tossicodipendenza. Newman ebbe una love story molto duratura con Steve McQueen, e si innamorò anche di Robert Redford e Tom Cruise. Ma, a quanto pare, si riteneva ormai troppo vecchio e mantenne il proprio amore ad uno stadio platonico. Fu amante di Marilyn ed Anthony Perkins.
MONICA VITTI, LA RAGAZZA CON LA PISTOLA
Monica Vitti, fra le varie icone gay, è una nostra gloria nazionale. Rientra in questa categoria molto selettiva e volubile per la sua bellezza da top model anni Sessanta, e anche per il suo temperamento, per quella simpatia emersa dopo che Monica è uscita dalla rossa spirale desertica dei silenzi di Antonioni, suo marito e mentore dai diciannove anni. Monica Vitti diventa una grande star della commedia italiana, recitando a fianco di Nino Manfredi, Ugo Tognazzi e Alberto Sordi. Favolosissima ne La Ragazza con la Pistola, di Mario Monicelli.
GRECIA COLMENARES+SALLY SPECTRA
A livello iconico, Grecia Colmenares somiglia molto ad versione acqua e sapone di Ilona Staller, per il capello biondo lungo e fluente, da Madonnina. Sesso sì, ma super sublimato. Grecia ha iniziato la sua ascesa nel mondo parallelo delle telenovele brasiliane all’età di quindici anni, e ha mietuto successi, da Topazio, a Milagros, fino a Manuela. Perché Grecia è un’icona gay? Perché è veramente trash. Per via della sua chioma ossigenata alla Panicucci, per l’abbronzatura marrone, per il monosopracciglio, per le interpretazioni di eroine cieche o sfigurate dalla sfiga tanto da dover portare una maschera, per il suo arrivo in aeroporto a Malpensa con ottantavaligie di Louis Vuytton al seguito, per il gusto del melodramma insito nell’universo delle telenovele, molto di più che nei film di Pedro Almodovar.
Sempre da questa galassia, ma dall’interno narrativo, ecco arrivare planando Sally Spectra, la Vanna Marchi di Beautiful. Caricaturale e baraccona come una drag queen, con un nome a detta dei siti gay “favoloso”, adoratissima per i suoi vestiti e le cotonate, e per aver buttato Stephanie in mare a Portofino. Dopo la morte reale dell’attrice per un cancro allo stomaco, Sally è stata beatificata mediante un trasferimento in un aldilà soap-operistico e paradisiaco: un villone in Costa Azzurra pieno di whisky e bei ragazzi.
CARY GRANT E L’ELEGANZA DELL’LSD
Prima di Cary Grant, c’era Archibald Leach. A quindici anni, Archibald scappa col circo, fa il saltimbanco, e fra una cosa e l’altra approda oltreoceano. Fa il tuttofare per la Paramount, e una volta cambiato in nome in Cary Grant, riesce ad ottenere piccoli ruoli in film con le attrici più calde dello star system, Marlene Dietrich e Mae West. A ventinove anni Cary gira il primo ruolo da protagonista, al fianco di Katharine Hepburn. Simbolo assoluto dell’eleganza britannica, ossessionato dai dettagli, dall’autocontrollo, e dall’autopoiesi del proprio mito, Cary Grant sarà uno dei primi ad avvalersi dell’LSD per scopi terapeutici, quando era ancora una sostanza legale, riferendo di averne tratto grandi benefici. Secondo il collettivo Wu Ming, che darà a Cary Grant una delle parti principali nel romanzo 54, il suo stile era come un’arte marziale. Per quanto sposato parecchie volte, c’è stato un periodo in cui Cary era perennemente insieme ad un aitante attore, Randolph Scott.
RITA HAYWORTH E LA FINE DI GILDA
Rita Hayworth, con il suo corpo immenso e morbido, i capelli rossi e il viso da bambina, una delle più grandi bellezze hollywoodiane di tutti i tempi, è stata plasmata dalla Paramount. Prima di farla debuttare, lo Studios sottopose l’allora Margarita Carmen Cansino ad estenuanti sedute di elettrolisi, per alzarle l’attaccatura dei capelli. La chioma da nera diventò rossa. Rita Hayworth sposò la voce più sexy dello star-system, il geniale ed orribile Orson Welles, che compose un poema di luce e inquadrature ad ode della sua bellezza ne La Signora di Shangai. Il suo ruolo di culto è quello della sinuosa Gilda, in cui fa uno degli spogliarelli più caldi della storia del cinema, togliendosi unicamente un guanto. Dopo essere stata soprannominata la Dea dell’Amore, divorziò da Orson e sposò Alì Khan, un principe arabo, beccandosi per questo la scomunica del papa e una persecuzione dal parte della stampa e del pubblico reazionario. Rita Hayworth seguirà la parabola classica di tutte le grandi dive hollywoodiane: con l’andare del tempo sempre meno ruoli e sempre più drink. A ciò si aggiungerà un precoce morbo di Alzheimer, poco noto negli anni Sessanta, i cui primi sintomi verranno scambiati e derisi come fenomeni legati all’alcolismo. Sic transit gloria mundi.
Testo critico e curatela per la mostra STARDUST: Stelle, Santi e Cose Preziose, inaugurazione 2 dicembre 2012 presso Cayce’s Lab, pubblicato sulla fanzine cartacea autoprodotta Unknown Pleasures, numero zero, grafiche di Francesca De Paolis.