Sentiamo di poter affermare che Rei Kawakubo sia – e sia sempre stata – la fashion designer più estrema della contemporaneità. Al di là di tutte le mode, al di là della tirannia della forma del corpo, incurante dell’idea classica di eleganza, oltre il tempo, oltre i generi sessuali, indifferente rispetto alla capacità umana di indossare abiti che precludono le capacità motorie o visive, al di là dei confini che dividono l’abito e la scultura. Rei Kawakubo non ha mai mostrato di curarsi di questi postulati, che costituiscono quasi gli a priori della sua disciplina. Ha sempre e solo inseguito la sua personale, potentissima visione. Il color nero è uno dei materiali poetici più forti di questa visione. È stata proprio lei, assieme a Yohji Yamamoto, ad imporre per la prima volta il nero nella moda strettamente contemporanea, trentaquattro anni fa, quando questo colore era stato virtualmente retrocesso dalle passerelle da almeno due decadi. A volte si ha l’impressione che il nero di Rei Kawakubo sia quello di una sublime cecità, che compensa la propria conoscenza del mondo con il senso del tatto. È come se i suoi abiti fossero realizzati da un sarto incommensurabilmente bravo, ma cieco. Il grande maestro cieco allunga le proporzioni di maniche e forme fino a renderle anisotrope, allo stesso modo delle figure del Manierismo pittorico. Piazza bottoni a caso dietro la schiena, come se il corpo fosse una mappa da marcare. Prova piacere nel toccare forme morbide a bozzolo, rotondità, estroflessioni, e quindi ne crea sempre di nuove. Passa le mani con voluttà su rasi perfettamente lisci, increspature di trine, volumetrie. Il maestro fonde il tatto e questa sua seconda vista, che ha sviluppato dopo che la prima è stata bruciata da un’immane esplosione. Non è un caso che la rivista curata da Rei Kawakubo negli anni Ottanta si chiamasse Six, alludendo ad un sesto senso, un senso ulteriore, al di là di quelli canonici.Gli abiti di Rei Kawakubo raccontano storie di metamorfosi ovidiane. Una gonna a pieghe, a metà di se stessa, si trasforma in un paio di pinocchietti sotto il ginocchio, e viceversa. Un vestito classico con la linea Dior degli anni Cinquanta diventa un abito punk grazie alla pelle nera di cui è fatto (Spring 2011). Una giacca classica diventa un cappotto al ginocchio, creando un trittico irresistibile di linee orizzontali assieme all’orlo dei pantaloncini da scolaro.“La mia idea di ciò che è bello muta costantemente.”, dice la designer. La mutazione si spinge fino alla deformità. La deformità ha sempre fatto parte dello stile di Comme des Garçons, con gobbe, bozzi, protuberanze imbottite, maniche impropriamente collocate sulla schiena o sui fianchi.Kawakubo, oltre che sull’idea di metamorfosi delle forme, lavora anche sugli innesti temporali, creando mise en abime di suggestioni e stratificazioni cronologiche: cotonate svettanti da cortigiana di Versailles, trine e merletti sovrapposti, sgualciti, come di nobili sfuggiti al Terrore, coprispalla di frange e forme piumate da guerriero Sioux, corpetti trasparenti con nastri da corsetteria cuciti davanti e guanti lunghi di pelle nera che coniugano il bordello anni Venti con il Bromley Contingent delle groupie dei Sex Pistols (FW 2004). Rei Kawakubo lavora sull’idea di durata, per questo motivo ci mostra tante stratificazioni temporali. I suoi capi provengono da segmenti temporali differenti, distanti fra loro, e si proiettano in una dimensione di atemporalità. I suoi vestiti sono molto difficilmente collocabili lungo i cinque decenni in cui sono stati creati. Non si può dire con certezza se siano degli anni Ottanta o Novanta, del Novecento, degli Anni Zero o del Mille e non più Mille.
Kawakubo vuole che i suoi abiti aiutino le persone che li indossano ad essere più sicure sé: la durata si unisce all’idea di stabilità. Il paradosso è evidente, perché da sempre nelle sue collezioni emerge l’idea di naufragio, di finimondo. Ma è proprio dal disastro che nasce infine la forza. Rei Kawakubo, “la comandante assoluta di Comme des Garçons”, è laconica, piena di energia, perfezionista fino al punto di non essere mai soddisfatta di quello che fa. Dicono che sia solitaria e poco socievole.
Kawakubo nasce nel ’42, nel Giappone occupato dagli americani. Uno dei suoi primissimi ricordi è legato allo scoppio della bomba atomica. Bonnie English riferisce che il periodo dell’infanzia di Rei Kawakubo è storicamente noto in Giappone come kuraitani, la Valle Oscura, per l’estrema povertà e crisi sociale, culminata poi con la tabula rasa di Hiroshima e Nagasaki. Laureata all’Università di Keio in Letteratura e Filosofia a ventidue anni, Kawakubo vuole più di ogni altra cosa essere indipendente ed inizia a lavorare nel reparto pubblicità dell’azienda di moda Asahi Kasei. Fonda il marchio Comme des Garçons nel 1969, iniziando a sperimentare le sue decostruzioni quando in Occidente si impazzisce per la minigonna di Mary Quant, le fantasie optical di Pierre Cardin, le suggestioni levigate dell’era spaziale di Paco Rabanne, gli epigoni della Swinging London e le tuniche etniche della Summer of Love. Rei Kawakubo continua per la sua strada durante gli anni Settanta delle zampe d’elefante, delle sinfonie di colori caldi, delle varie eredità glam rock.
Rei Kawakubo mostra fin da subito una visione avanguardista incredibile, che la fa essere in anticipo sul corso della moda di una generazione, se non di due. Per intenderci, nella fenomenologia degli stili dell’arte, Leonardo da Vinci era in anticipo di una generazione, ovvero faceva quello che avrebbero fatto in massa i pittori nati venticinque anni dopo di lui.Nel 1973 Kawakubo apre la sua prima boutique in Giappone.
Il suo scioccante debutto alle sfilate di Parigi avviene nel 1981. In mezzo ai colori sgargianti e alle forme trapezoidali dell’edonismo anni Ottanta, in mezzo ai viola, ai fucsia e ai blu elettrici, Rei Kawakubo propone una collezione completamente nera. Josh Sims afferma che “a lei va il merito di aver introdotto toni scuri nella moda, ma anche tessuti invecchiati, cuciture a vista e buchi fatti apposta.” Con l’esclusione della coeva Vivienne Westwood, sulle passerelle non si erano mai viste lacerazioni e buchi nei maglioni, come nel celeberrimo capo fotografato da Lindbergh nell’82. La prima collezione Hiroshima Chic fin dal titolo fa riferimento alla catastrofe, alla distruzione totale, al post-apocalisse. Il nero è quello dei fiocchi di cenere di un fall out radioattivo che tutto cancella, ma, nello stesso tempo, è anche quello della terra resa più fertile dall’antica pratica di incendiare i campi. Caroline Newell sostiene che “Fin dal suo debutto nel 1981, Rei Kawakubo è rimasta fedele al colore nero.” I volti dei modelli di una delle prime collezioni sono segnati da macchie di trucco che alludono a cicatrici ed esiti radioattivi. Le teste sono coperte da bande nere annodate in copricapi di fortuna, che rimandano anche ad un’idea occidentale di Medioevo, per la somiglianza con gli elaborati turbanti dei ritratti gotici e fiamminghi.La terza collezione di Kawakubo si intitola Destroy. Di questa collezione fa parte un celebre capo di maglieria, realizzato sia in bianco panna che nero, caratterizzato da un intrico di nodi e da ampie maniche rettangolari. Kawakubo cita la tradizione giapponese, che ha declinato l’arte dei nodi in svariate forme, dalla tortura marziale o sessuale dello shibari e del kinbaku, fino ai codici di seduzione insiti nel modo di annodare il tradizionale obi, la fusciacca che cinge il kimono. Chiaramente anche le maniche rettangolari fanno riferimento all’abito giapponese tradizionale per eccellenza, che risulta più o meno formale a seconda appunto della loro ampiezza.Gli scialli sdruciti, i capi coperti, le caviglie sottili dentro a grosse scarpe fuori taglia, come trovate fra le macerie, le ampie scarselle allacciate alla vita, tutti gli elementi degli outfit danno un’idea di scenario post-bellico, di Età di Mezzo causata da una grande distruzione, in cui bisogna continuare a cercare, lottare, sopravvivere. Da questi abiti fuoriescono drappeggi ripiegati, come se fossero vestiti troppo grandi, rimediati e riadattati addosso al corpo con mezzi di fortuna. A metà degli anni Ottanta Rei Kawakubo propone degli abiti che ricordano moltissimo delle uniformi monocrome da istituzione totale, scuola, orfanotrofio o collegio che sia. Le longuette si abbinano a maglioncini striminziti e cappelli oversize da piccolo vagabondo in giro per i vicoli. Le gonne spesso rivelano di essere dei grembiuli da lavoratrice. Poi ci sono tailleur grigi con risvolti neri e tessuto in eccesso che si va a drappeggiare sui fianchi. Altri abiti bianchi vanno a creare geometrie sul corpo anticipando di almeno vent’anni i decostruttori di area anglofona. Kawakubo dimostra di amare la bicromia bianco/nero del pied de poule e del tartan, che assembla nelle sue forme più vezzose. Poi arricchisce le sue strutture severe con morbidezze in bianco o lustrini luminescenti su fondo nero. Utilizza le asimmetrie. Impreziosisce gli abiti neri con grandi gocce di cristallo. Alla fine degli anni Ottanta Comme des Garçons inizia a definire gli elementi strutturali più forti del suo stile. Ibrida forme eleganti classiche, come quella del tailleur nero, con materiali luminescenti impropri, da abito da sera, e le scompone in forme scucite, sbagliate, non finite. Compaiono i profluvi asimmetrici di balze nere, le camicie bianche fortemente decostruite, con fiocchi e lacerti penzolanti, le scarpe a coda di rondine bicolori. Le gonne a balze da un lato diventano gonne a pieghe dall’altro. I vestiti a doppiopetto perdono la loro severità in una miriade di piccole onde mobili. Forme nere si abbinano con tessuto rosso sottostante. Vediamo per la prima volta i pompon e i pois. Alla fine degli anni Ottanta Rei Kawakubo propone anche quello che diventerà il must del 2015, i pantaloni palazzo.L’inizio degli anni Novanta si basa sull’utilizzo di materiali che andranno durante quel decennio, la plastica, l’argento, i tessuti a rete o trasparenti, il pvc, che vanno a spezzare la classicità delle giacche da sartoria. Kawakubo predilige come sempre il nero e la bicromia nero-bianca, ma utilizza spesso anche una meravigliosa, delicatissima sfumatura di grigio, assieme ai colori, decisi o tenui che siano. Vediamo degli abiti a cono neri con dipinti a mano in stile orientale. Questa rivisitazione della sagoma classica della principessa, o della ballerina, è una delle forme con cui Comme des Garçons ironizza, con garbo e leggerezza, su un’idea particolare di femminilità. Questa femminilità ha a che fare in qualche modo con la sfera infantile, da cui provengono anche i fiocchi, i pois, le trine, i fiori abnormi di tessuto.Della tradizione giapponese più regale del periodo Kamakura ed Edo fanno parte i capi bianchi fatti di carta della collezione dell’autunno ’91, nella quale sfilano anche le top model con dipinti corporei tribali, che anticipano i tatuaggi neotribali contemporanei. Questa è una collezione ricchissima, con svariati rimandi etnici, dai tessuti tradizionali colorati africani alle stoffe lucide e sontuose delle dinastie indiane. Ci sono anche frac neri portati su vesti bianche sgualcite. Le stratificazioni si fanno sempre più corpose. I vestiti hanno tagli vivi con fili tirati.
Lilith (FW 92-93) è una creatura gotica, la cui silhouette si sviluppa in linea retta verso l’alto, un misterioso vampiro col volto coperto come per proteggersi dai miasmi di una pestilenza. Le parti lucide di raso nero del pezzo superiore assorbono e riflettono la luce, in contrasto con le parti inferiori, di materiali fluttuanti e semitrasparenti come nebbia. I capelli sono crocchie lanuginose di Crazy Colors di varie sfumature comprese fra il fucsia, l’arancione e il viola. A parte pochissime pennellate di rosa shocking, gli abiti sono tutti completamente neri, lunghi, stratificati, tagliati a vivo, con lunghi guanti neri troppo grandi, scarpe basse sgraziate, innesti impropri come maniche che spuntano dai fianchi, giromanica all’altezza dei gomiti. L’atmosfera è quella di una metropoli a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, dove la vita è una lotta e la morte è sempre dietro all’angolo.
Un altro tratto fondamentale di Kawakubo è la rivisitazione di tratti tradizionali non solo della moda, ma della cultura giapponese tout court, che si legano a citazioni provenienti dall’Occidente. La struttura della fotografia promozionale di Adult Punk (97-98) richiama alla mente una rastrelliera teatrale a cui sono appese maschere del teatro kabuki. I volti completamente imbiancati con tratti neri netti sulle palpebre mostrano i parallelismi visivi (e sociali) fra la moda di strada delle subculture occidentali e il teatro giapponese. Entrambi, sia il punk che il kabuki, nascono attentando alla morale corrente. Da una parte, ragazzacci che sputano sul palco e bambine cattive che si vestono come prostitute, creando nel frattempo una nuova forma musicale ed estetica, dall’altra un gruppo di attrici e danzatrici che crea una nuova forma teatrale, per poi venire tacciato di prostituzione e tenuto per sempre lontano dalle scene. Le parti femminili del kabuki sono da allora interpretate dagli uomini, gli effemminati onnagata. Una delle accezioni del termine punk, come ha ribadito William Burroughs, è omosessuale passivo.
La collezione autunno-inverno del 2002 è caratterizzata da forme lunghe, austere, fascianti, con cappotti distorti, in cui l’unica nota di colore è costituita dai bottoni di legno. I capelli sono rigorosamente raccolti in strettissimi chignon laccati con riga da una parte, a metà strada fra istitutrice di collegio e lesbica berlinese di inizio Novecento.
La primavera del 2003 ha forme più morbide e sontuose che avvolgono in panneggi asimmetrici, correlate a capigliature bionde quasi botticelliane, con la differenza che i nodi non vengono fatti sulla nuca ma sotto al mento. Anche gli abiti si annodano in groppi biomorfi, che raccontano di nidi, bozzoli primaverili ed intrecciamenti. Oltre al nero sono presenti colori naturali, come juta e verde mimetico.
Nell’autunno del 2004 longuette o pantaloni classici molto larghi costituiscono le basi delle mises, con elaborati pezzi scultorei sopra. Le arricciature vanno ad aumentare il volume delle spalle come se fossero stole. L’utilizzo del raso nero, in accostamento con le forme piene di motivi plissé e gale richiama alla mente la moda da lutto vittoriana. Di questa collezione fanno parte tre superbi pezzi scultura: sulla base trasparente si vanno a piazzare concrezioni di materiale sartoriale, fili, piume, trine, bottoni, cappelli, creando un ibrido fra maglia e gioiello sciamanico, che talvolta si allunga fino a diventare vestito. Le maniche di giacche classiche si spaccano scandalosamente, lasciando fuoriuscire tulle e pizzi, come nelle preziose maniche accoltellate dei principi rinascimentali.
Nella collezione primavera-estate del 2009 Rei Kawakubo coniuga al nero il bianco candido di parrucche ispirate all’ultima nobiltà francese prima della Rivoluzione, le cui acconciature potevano raggiungere anche il metro di altezza. Sculture lanuginose si avvolgono intorno alle teste e ai volti dei loro portatori, le cui vesti sono nere, lucide, puntute. A volte si trasformano in scaglie esagonali come quelle dei palloni da calcio, per scorporarsi infine in un morbido piumaggio di garza, avvolgente come muschio.
L’autunno-inverno del 2010 gioca con le variazioni in nero sul trench: le sue forme possono risalire verso l’alto, in imbottiture deformanti su fianchi e spalle, in innesti muscolari, oppure possono allungarsi fino al ginocchio con un’andatura netta ed elegante. Le scarpe sono da uomo, grandi, strabordanti e non rifinite, con pelle superflua intorno alle cuciture.Negli abiti tornano a fiorire bozzoli, neri ed organici, in profusione da cornucopia.Nella primavera-estate 2011 esplode una sovrabbondanza tentacolare di maniche, con vestiti mutanti, lovecraftiani, simili a cose vive esposte alle radiazioni, non più solo di Hiroshima e Nagasaki, ma anche di Fukushima. Le modelle hanno l’incarnato cereo, i capelli raccolti in una retina attillata, che in realtà si rivela essere una parrucca capovolta. L’idea di caos viene spesso arginata con il particolare della grossa cintura, alta sulle costole in stile anni Cinquanta. Il nero si impone anche quando è solo un tocco, sui meravigliosi ed elegantissimi abiti bianchi, con sovramaniche o bande nere. E per il massimo della deformità, compaiono abiti concepiti per gemelle siamesi.
Nell’autunno del 2011 i capelli delle modelle sono quelli di Marlene, ricoperti da una crosta d’oro, e il nero si divide in squame protettive. Si gioca sulle linee orizzontali delle lunghezze spezzate, sulla metamorfosi. Indimenticabile in questo senso il cappotto lungo nero, a sinistra di lucido raso indaco, a destra di tessuto opaco che assorbe la luce. Lacerti di vari abiti si combinano insieme, spesso rimanendo sgualciti, annodandosi fra di loro, creando increspature e jabot. Alcuni capi rimangono come incompiuti, a metà, congelati nel processo metamorfico della creazione, cappotto da una parte, esile coprispalla d’altra.
Nel 2013 i vestiti si trasformano in gabbie, mentre i capelli svettano verso l’alto come antenne stellari.
Nel 2014 la sperimentazione sul nero di Comme des Garçons va sempre di più nella direzione della plasticità scultorea, realizzando abiti futuristi, forme uniche della continuità nello spazio. Nell’autunno inverno i vestiti diventano veri e propri dispositivi marziali, di camuffamento, protezione o offesa, come nell’occhio del ciclone di una sommossa. Altri, quelli più radicali, che nascondono il volto e gli occhi, sembrano abbigliamenti monastici, di clausura. Quindi monaci, cavalieri, regine dalle lunghe vesti, vezzose cortigiane con le gambe scoperte, consiglieri e lord con parrucche bianche. Rei Kawakubo è rimasta indifferente di fronte alle sfilate spettacolari di scuola Dior, concentrando tutta la sua genialità negli abiti, distillando uno stile mutante, sommamente anarchico rispetto alle regole della moda, di perfezione e rigore concettuale assoluti. Androgino e nello stesso tempo ironicamente girlish ed infantile, coltissimo e postmoderno nei riferimenti a spazi e tempi diversi, il suo linguaggio si impone come un sistema di segni complessi ed estremi ma immediatamente riconoscibili. Assieme a Yohji Yamamoto, Rei Kawakubo ha il merito di aver riportato il color nero sulle passerelle contemporanee, dove ora impera. Kawakubo ha utilizzato il nero in modi caleidoscopici, che rimandano alla catastrofe, al post-Apocalisse, alla forza, alla lotta, alla difficoltà degli esordi, al valore autodeterminante e fortissimo del lavoro, al piacere puramente tattile della sua grande arte, ad un’eleganza in cui tutti gli opposti si trovano a coincidere.
La bibliografia di questo pezzo è riservata. Tutte le immagini, salvo dove indicato diversamente, sono state reperite su www.vogue.com, che ha costituito uno strumento fondamentale della nostra ricerca.
Questo articolo costituisce un demo del saggio sul color nero nella moda contemporanea, realizzato in collaborazione con A.D.E. per l’Accademia delle Belle Arti di Bologna. Quella su Rei Kawakubo è una delle otto grandi monografie già realizzate sugli stilisti contemporanei classici, oltre all’introduzione che va dall’Antica Roma agli anni Ottanta del Novecento. Sono in preparazione le parti sugli stilisti emergenti, le nuove tendenze del nero e le icone nerovestite. Chiunque sia interessato a comparire in questo progetto, a pubblicarlo o a finanziarlo, è pregato di contattarci all’indirizzo kainowska@gmail.com