« [17] Gli rispose uno della folla: “Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto.[18] Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”.
Vangelo secondo Marco, IX, 17-19
“Si divertono guardando il suo corpo che si contorce (…) Ma il dolore è sommerso da urla che ne chiedono ancora. Prega Dio, fai alla svelta, guardalo cadere.”
Ian Curtis, The Atrocity Exhibition
“26] E gridando e scuotendolo fortemente, lo spirito se ne uscì. E il ragazzo diventò come morto, sicché molti dicevano: “È morto”.[27]
Vangelo secondo Marco, IX, 26-27
Ogni culto viene creato in sinergia con la sua rappresentazione. L’iconografia dei Joy Division è come la loro carriera. Limitata, iper-condensata, costruita per sottrazione, per cui più è piccola la massa più grande risulta la sua energia. Tre anni, quattro considerando il periodo speso con altri nomi, poi la fine. Un numero chiuso di fotografie, ancora più rare le registrazioni video. E in tutto questo corpus visivo, Ian Curtis cancella sempre ciò che gli sta intorno. Gli altri componenti del gruppo diventano delle sagome di contorno, di cui è difficile ricordare la fisionomia. Tutti i testimoni che ne hanno visto il momento aurorale concordano nel dire che “il gruppo suonava di merda, ma c’era qualcosa nel cantante.”
Nel corso dei quattro anni di attività, lo stile di Ian Curtis ha subito dei mutamenti. Nei territori invisibili, prima della fama, durante l’adolescenza, Curtis emula Bowie. Si taglia i capelli in stile Diamond Dogs, si trucca gli occhi, indossa agghiaccianti pantaloni di satin rosso, una maglia verde con Lou Reed, una pelliccia finta della sorella. Poi, in parallelo con la storia della band, Ian si evolve come cantante punk. I Warsaw erano un gruppo molto grezzo, dotato, a detta di Paul Morley “di un’eccentrica sfrontatezza, di un oscuro fascino brillante”.
In questo primo periodo, Ian fa performance selvagge in cui emula il suo idolo Iggy Pop, rotolandosi su cocci di vetro, aprendosi squarci nelle gambe, gettando sul pubblico assi divelte dal pavimento. Indossa pantaloni di pelle, maglioni ruvidi, occhiali a specchio con lenti a goccia, modula la voce su registri aspri.
La moglie Deborah riferisce di una giacca con la scritta HATE, in arancione acrilico su tessuto verde. Questo capo viene rappresentato nel bianco e nero del film Control, in una memorabile inquadratura da dietro, in cui la telecamera segue il personaggio come un’oscura, incombente forza.
Carole Curtis, la sorella, non ha ricordi di questa giacca, ma non esclude che potesse trattarsi di una toppa che veniva di volta in volta messa e rimossa. Altre fonti raccontano di un Ian fattissimo di alcol e anfetamine, con addosso la giacca Hate, presente allo storico concerto dei Sex Pistols del ‘76 all’Electric Circus di Manchester, dove di fatto vengono fondati i futuri Joy Division. Carole Curtis riferisce però che Ian “aveva troppo stile per il look punk. Era molto attento alla moda, chic e moderno. Era sempre un passo avanti agli altri.”
Infatti Ian Curtis codificherà la tendenza immediatamente successiva al punk. Il postpunk è fatto di minimalismo, il suo colore dominante è il grigio, ed è uno stile che tende alla mimesi rispetto all’establishment, un po’ come era avvenuto per i mods, che potevano presentarsi al lavoro con addosso i loro vestiti rituali senza che nessuno lo notasse.Nel postpunk ci sono segni di aggregazione sotterranei, come gli impermeabili grigi, lanciati proprio da Curtis negli scatti di Kevin Cummins. (L’impermeabile in questione era in realtà verde militare.)
Con i Joy Division si opera la prima volta per la decostruzione visiva dello stereotipo della rockstar, fino ad avere una band che assomiglia “ ad un gruppo di Mormoni in visita dall’Iowa” (Middles). Curtis abbandona i pantaloni punk di pelle per dei pantaloni classici da uomo, abbinati ad una camicia, che poteva essere grigia, rossa, rosa, o color fiordaliso come nelle registrazioni della BBC. Una mise semplice ed essenziale, che verrà ripresa da molti, da Simon Topping degli A Certain Ratio, a Nick Cave, fino a Cristiano Godano dei Marlene Kuntz.
Un’altra moda che lancia Curtis è quella della busta di libri. Cerebrale fino all’estremo, molto colto nonostante l’abbandono degli studi, i suoi testi sono ricchi di citazioni dalla letteratura d’avanguardia. Curtis viene visto dietro le quinte del Leigh Rock Festival mentre legge L’età della Ragione di Sartre, e si aggira con i suoi volumi preferiti chiusi in una shopper. Ama Camus, Burroughs, Ballard, Kerouac e Dostoevskij. Ian Curtis è stato il primo punk letterato, e anche questo suo tratto aveva creato, all’epoca, una tendenza.
Ma i momenti più densi per la mitopoiesi dei Joy Division sono sul palco. “Quando Ian ballava, i Joy Division diventavano all’istante la band migliore”. Anton Corbijn dice che, nell’arena del palcoscenico, Ian Curtis “diventava un’altra persona, come posseduto da qualche strana forza”. “Come se fosse risucchiato da una nube elettrica ad alto voltaggio”, aggiunge Genesis P-Orridge, amico stretto di Curtis, uno degli ultimi ad averlo sentito per telefono la sera del 17 maggio 1980. “Sembrava separato dagli altri da un lampo di luce”. E Tony Wilson, il boss della Factory, va ancora più a fondo: ”Sembrava strano e speciale, ma non per il modo di ballare. Per gli occhi.”
Alto, spalle strette, mani grandi e nodose, viso spigoloso, naso strano, occhi bellissimi, la natura estetica di Ian Curtis è doppia. Esattamente come erano la sua personalità e la sua vita sul volgere della fine, divisa e bipolare l’una, scissa l’altra, fra moglie ed amante, famiglia borghese e proiezione divistica, fra l’anelito ad un successo che passava per forza dalla ribalta ed una malattia che proprio a causa delle esibizioni live si aggravava sempre di più. Nessuno è riuscito a risanare questa frattura. Questa divisione per Curtis era uno stigma, un marchio palese in tutta la sua fenomenologia, ovvero in tutto ciò che lo riguardava visivamente. A seconda dell’angolazione, del periodo, della luce, Curtis poteva apparire bello, per la sua straordinaria intensità, per il pallore alieno e luminoso da allergia al sole, ma anche brutto, nelle pose scomposte, nei lineamenti gonfi a causa dei neurolettici.
I suoi movimenti sul palco erano imbarazzanti, grotteschi, ma anche pieni di ipnotico magnetismo, che ha generato migliaia di epigoni ed è stato magistralmente colto nelle fotografie di Kevin Cummins. Nelle registrazioni video, la sua mimica passa da smorfie da invasato a momenti di introspezione in cui il mondo esterno sembra scomparire ai suoi occhi, molto sensuali, perché definiti da quella concentrazione esclusiva tipica del sesso. A livello estetico, nessuno è riuscito a rimanere in bilico sul filo del rasoio fra bruttezza e splendore come ha fatto Ian Curtis.
La sua rappresentazione biografica si divide fra il libro della moglie, Deborah, che descrive Ian come un arrivista instabile, patologicamente geloso, razzista, con una marcata vena di violenza, e la biografia di Mick Middles, lo storico giornalista della temperie postpunk, in cui tutti concordano nel ritratto di uomo altruista, pacato, di grande sensibilità ed empatia. A partire da questo profilo da Dottor Jekyll e Mister Hyde, vent’anni dopo l’icona di Ian Curtis viene cristallizzata in due simulacri, nei film Control (Anton Corbijn, 2007) e 24 Hour Party People (Michael Winterbottom, 2002).
Da una parte l’attore Sam Riley, occhi grandi, lineamenti delicati, interpretazione lirica, dall’altra Sean Harris, sguardo a fessura, faccia storta, orribile mentre giace nella bara vestito di bianco, ma migliore di Riley nel rappresentare i momenti di possessione sul palco.
Proprio questa frattura, questa polarizzazione viene colta da Corbijn nel video postumo di Atmosphere. Arcano come una visione post-mortem, il video mostra una terra desolata in cui si muovono monaci senza volto, bianchi e neri, come usciti da un film di Ingmar Bergman. Le figure incappucciate portano icone di Curtis, e sulla loro schiena sono impressi due segni, il più e il meno. La processione finisce, e lo spettatore si rende conto che quello che sembrava un deserto in realtà è la via che conduce al mare, emblema di tutti i misteri della vita e della morte, e di tutto ciò che sfugge alla nostra comprensione.
Pubblicato nel febbraio del 2013 su DATE-HUB e sul numero zero della fanzine cartacea autoprodotta Unknown Pleasures, grafiche Francesca De Paolis