FORTES FORTUNA ADIUVAT _ Eroismo, migranti e grandi narrazioni nella mostra “Nella buona e nella cattiva sorte” di Simone Ferrarini per FestivalFilosofia 2010 [sulla Fortuna]


Che fine hanno fatto le grandi narrazioni? Quelle mitologie che raccontano del Big Change, ovvero l’esito del viaggio dell’eroe?
L’eroe lascia la terra della mancanza per muoversi verso un mondo sconosciuto, in cui dovrà superare soglie e prove, fino ad arrivare al sacrificio e alla resurrezione. Questo schema narrativo ha fatto nascere religioni, miti di fondazione, epopee,  best-seller, cult-movie, e  fiction televisive. La più grande fascinazione soggiacente a questo paradigma mitopoietico è che rappresenta la possibilità di cambiare, sempre e comunque, anche da uno stato irreversibile come la morte.

Nel nostro universo protetto e pacificato le grandi narrazioni si possono vedere solo sul piccolo schermo, su quello grande o sui suoi surrogati digitali. Ma sempre su uno schermo, ovvero qualcosa che, pur dando l’illusione di essere uno specchio, ci separa dalla cosa rappresentata. Il radicale di schermo è di origine longobarda, skirmjan, proteggere, schermare, e quindi separare da qualcosa che sta all’esterno. Non c’è possibilità di entrare nel grande epos contemporaneo, a meno di non passare dall’altra parte dello schermo. Miriadi di persone ci provano, calciando palloni, sgolandosi alla ricerca del fattore X, digiunando prima dei concorsi di bellezza, ricercando l’eccellenza in un determinato campo.

Nella vita reale, privata da riti di passaggio che forniscano all’uomo coordinate identitarie, in quella vita scandita dagli obblighi e dalla percorrenza di spazi ristretti e conosciuti, le uniche persone a cui è concesso di intraprendere il viaggio dell’eroe sono proprio gli ultimi. Gli immigrati, i clandestini, quelli che vengono dall’esterno, quelli che devono stare nascosti. Le non-persone, ben nascoste dietro a queste etichette di non-appartenenza, di non-identità. Ferrarini dedica loro un intero ciclo pittorico, associando i migranti all’idea della ricerca di un bene totalizzante e prezioso come la fortuna. Nel ciclo di Ferrarini la fortuna viene interpretata come un imperativo all’azione, al movimento, all’esplorazione attiva.  Una sfida alla sorte e alle radici spesso scomode che ha fornito all’individuo. Una sfida all’abituale diffidenza nei confronti dello straniero, molte volte codificata in aperta ostilità e manipolata dalle forze politiche.

Con le sue pennellate veloci e sintetiche, l’artista descrive sia le masse in movimento, sia i singoli. Le loro espressioni di scoramento, tristezza, paura, disagio, speranza, attesa. Andare a cercar fortuna, abbandonare ciò che si conosce per intraprendere viaggi pieni di pericoli alla volta di un futuro ignoto implica un’enorme dose di coraggio. E il coraggio è la principale virtù degli eroi. Al di là dei santi di plastica dell’edonismo e del denaro, i veri eroi dei nostri tempi sono i migranti.


Testo critico scritto per la mostra Nella buona e nella cattiva sorte di Simone Ferrarini per FestivalFilosofia 2010, inaugurazione 17 settembre presso Magazzini Criminali. A cura di Magazzini Criminali.


Che fine hanno fatto le grandi narrazioni? Quelle mitologie che raccontano del Big Change, ovvero l’esito del viaggio dell’eroe?

L’eroe lascia la terra della mancanza per muoversi verso un mondo sconosciuto, in cui dovrà superare soglie e prove, fino ad arrivare al sacrificio e alla resurrezione. Questo schema narrativo ha fatto nascere religioni, miti di fondazione, epopee, best-sellers, cult-movies, e fiction televisive. La più grande fascinazione soggiacente a questo paradigma mitopoietico è che rappresenta la possibilità di cambiare, sempre e comunque, anche da uno stato irreversibile come la morte.

Nel nostro universo protetto e pacificato le grandi narrazioni si possono vedere solo sul piccolo schermo, su quello grande o sui suoi surrogati digitali. Ma sempre su uno schermo, ovvero qualcosa che, pur dando l’illusione di essere uno specchio, ci separa dalla cosa rappresentata. Il radicale di schermo è di origine longobarda, skirmjan, proteggere, schermare, e quindi separare da qualcosa che sta all’esterno. Non c’è possibilità di entrare nel grande epos contemporaneo, a meno di non passare dall’altra parte dello schermo. Miriadi di persone ci provano, calciando palloni, sgolandosi alla ricerca del fattore X, digiunando prima dei concorsi di bellezza, ricercando l’eccellenza in un determinato campo.

Nella vita reale, privata da riti di passaggio che forniscano all’uomo coordinate identitarie, in quella vita scandita dagli obblighi e dalla percorrenza di spazi ristretti e conosciuti, le uniche persone a cui è concesso di intraprendere il viaggio dell’eroe sono proprio gli ultimi. Gli immigrati, i clandestini, quelli che vengono dall’esterno, quelli che devono stare nascosti. Le non-persone, ben nascoste dietro a queste etichette di non-appartenenza, di non-identità. Ferrarini dedica loro un intero ciclo pittorico, associando i migranti all’idea della ricerca di un bene totalizzante e prezioso come la fortuna. Nel ciclo di Ferrarini la fortuna viene interpretata come un imperativo all’azione, al movimento, all’esplorazione attiva. Una sfida alla sorte e alle radici spesso scomode che ha fornito all’individuo. Una sfida all’abituale diffidenza nei confronti dello straniero, molte volte codificata in aperta ostilità e manipolata dalle forze politiche.

Con le sue pennellate veloci e sintetiche, l’artista descrive sia le masse in movimento, sia i singoli. Le loro espressioni di scoramento, tristezza, paura, disagio, speranza, attesa. Andare a cercar fortuna, abbandonare ciò che si conosce per intraprendere viaggi pieni di pericoli alla volta di un futuro ignoto implica un’enorme dose di coraggio. E il coraggio è la principale virtù degli eroi. Al di là dei santi di plastica dell’edonismo e del denaro, i veri eroi dei nostri tempi sono i migranti.

Luiza Samanda Turrini

 

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