“Alla sua ombra, a cui anelavo, mi siedo, e dolce è il suo frutto al mio palato. Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore. (…) Come un nastro di porpora le tue labbra, la tua bocca è soffusa di grazia. Come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il velo. Come la torre di Davide il tuo collo, costruita a guisa di fortezza. Mille scudi vi sono appesi, tutti armature di prodi. (…)”
Il Cantico dei Cantici è un poema attribuito a Re Salomone, incredibilmente scampato alle epurazioni canoniche dell’Antico Testamento. Dicono che sia un’allegoria del rapporto fra Cristo e la Chiesa. Per noi invece parla dell’amore dei corpi: sesso di qualità eccelsa, quello che si fa fra gli dei, che assomiglia a uno scontro fra eserciti.
“Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati? (…) Son venuto nel mio giardino, sorella mia, mia sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte. (…) Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio, e un fremito mi ha sconvolta. Mi sono alzata per aprire al mio diletto e le mie mani stillavano mirra. Fluiva mirra dalle mie dita, sulla maniglia del chiavistello.”
Caravaggio doveva amare molto il Cantico. Oltre a citarlo visivamente nel Ragazzo con la Canestra di Frutta, lo inserisce anche nel Riposo Durante la Fuga in Egitto, sotto forma di musica: lo spartito aperto davanti al primo angelo che dipinge nella sua carriera è quello del mottetto di Noël Bauldewijn Quam Pulchra Es. L’adolescente alato lo sta suonando al violino. È visto di spalle, e divide in due la composizione come una colonna luminosa. Linee morbide si incastrano nella postura sinuosa delle sue gambe, il retro delle ginocchia riflette la luce, i tendini sembrano fatti di madreperla. Ha un profilo di tre quarti da Morte a Venezia, con ossa zigomatiche molto alte e naso dolcemente curvilineo. La resa dei suoi capelli è talmente tattile che viene voglia di toccarli. Gli angeli di Caravaggio si fondono con l’iconografia del daimon greco Eros, a cui abbiamo dedicato questo articolo.
PARENTESI SUL SESSO DEGLI ANGELI
La rappresentazione delle entità angeliche di Caravaggio, per quanto stupendamente carnale, non costituisce un caso isolato.
I precedenti abbondano: il diafano coro delle voci bianche di Benozzo Gozzoli, la grazia spudorata degli adolescenti botticelliani, i profili purissimi dei messaggeri nelle annunciazioni di Luca Signorelli, i musici dalle chiome vaporose di Melozzo da Forlì, fino alla vergogna nascosta negli archivi della Regina Vittoria, l’angelo incarnato itifallico di Leonardo da Vinci. Il Rinascimento italiano rappresenta numerose figure angeliche di fascino estremo, che celebrano un tipo di bellezza maschile interstiziale, delicata e androgina, tipica dei ragazzi molto belli di età compresa fra la fine dell’infanzia e i vent’anni. E’ la stessa età in cui i futuri pittori andavano a bottega, ricevendo l’iniziazione alle arti.
Questa prassi è idealizzata nel topos pittorico di Tobia e l’Angelo: un ragazzino guarda adorante un giovane di altera bellezza, intreccia le mani alle sue e lo segue.
L’episodio è stato ritratto da Filippino Lippi, dal Verrocchio, da Benozzo Gozzoli, da Piero Pollaiolo, dal Perugino.
In tempi più recenti, svariati artisti hanno messo in relazione gli esseri angelici con gli amori maschili. Jhonn Balance dei Coil nobilita in questa forma la figura di seduttiva violenza che compare in The Wheel: “Quando la tempesta rischiara e il sole splende – Vedremo la campagna aldilà del giardino – Oh, sono stato trascinato qui da un angelo – Contro la mia debole volontà il comando più forte – (…) E quando le nostre mani si sono toccate come mondi che si scontrano – Una stella è esplosa. (…) Che cosa vuoi? – Voglio scoparti, cazzo.” Gli angeli ricorrono più di venti volte in tutta la produzione poetica di Balance. Sono “angeli chimici” che entrano nell’arena di un sanguinario circo infantile in cui “vieni mangiato vivo dall’amante perfetto”, angeli “matematici, bestiali”, che arrivano assieme ad una morte “solare, logica e centrifuga”. Azrael, l’angelo della morte nella monumentale The Golden Section, compare a volte con l’aspetto di un bellissimo giovane, rivelando la connessione fra Eros e Thanatos.
La visione dell’angelo di The Dark Age of Love determina la nascita di un mondo di naufragi, fantasmi sudati che gemono e piangono, amori fiammeggianti che si trasformano in pire funebri. I primi versi di Horse Rotorvator insegnano che “gli angeli baciano le nostre anime beate – misurando l’estensione di un’ebbra discesa – giù per la scala anale”.
Nel suo Manifesto, Jhonn Balance definisce i Coil come “gli Arcangeli del Caos”, che “sanno come distruggere gli Angeli”, e How to Destroy Angels è anche il titolo del loro primo ep. Michelangelo Merisi deve il suo nome di battesimo al fatto di essere nato il 29 settembre, il giorno di San Michele Arcangelo. How to Destroy Angels è un disco di magia rituale consacrato a Marte al fine di accumulare energia sessuale virile. È stato registrato da maestranze esclusivamente maschili, con gong e strumenti di bronzo, materiale sacro al dio greco-romano della guerra, perché “il prezzo che paghiamo per l’esistenza è una guerra eterna”. Questo motto può essere applicato anche alla vita del Merisi, milanese feticista di spade e coltelli, “uomo di cervello inquietissimo”, di “carattere litigioso e strambo”, che viene fermato più volte dagli sbirri per porto d’armi. Quando la padrona di casa gli fa confiscare i beni per pagare l’affitto arretrato, nelle sue stanze trovano un piccolo arsenale. È quasi certo che da giovane sia fuggito da Milano a causa del coinvolgimento in un omicidio, e l’ultima fase della sua vita è una rovinosa caduta causata dall’uccisione di Ranuccio Tommasoni, seguita dalla condanna a morte per decapitazione e da una costante fuga. Insomma, Caravaggio viene continuamente coinvolto in episodi di violenza e buona parte della sua vita avviene sotto il segno di Marte. Oltre al dio della violenza, il cui glifo è la dinamica lancia della penetrazione, l’altro nume tutelare di How to destroy Angels è John Dee, uno dei primi intellettuali ad aver teorizzato – mediante metafore – gli stati allucinatori del rapimento sessuale come opera di esseri sovrumani. Mago di corte di Elisabetta I, Dee lascia alla posterità un grimorio che spiega come invocare i Malakim, tremende entità di potenza assimilabili agli angeli. A quanto pare, i suoi primi, solitari tentativi di evocazione vengono frustrati. Poi, a 55 anni, John Dee conosce l’alchimista Edward Kelley, ex favorito dell’Imperatore Rodolfo II, che afferma di essere capace di evocare gli spiriti a cui lui anela. I due diventano amanti. Kelley fa da medium durante i riti, detti convegni spirituali, riferendo a Dee delle formule in una lingua sconosciuta, ma dotata di una struttura coerente. La lingua degli angeli viene chiamata “enochiano”.
Judy Dench legge gli strazianti sonetti di Shakespeare, contemporaneo di John Dee e di Caravaggio, nel film di Derek Jarman The Angelic Conversation, onirica prova di videoarte sul desiderio e sulla bellezza maschile.
Jean Genet ha ribadito più volte di non amare gli angeli: “Ma se hanno le ali, hanno anche i denti?”. Ciò nonostante, è proprio lui, in un frammento dedicato a Ganimede, a fornirci la chiave per decifrare la connotazione erotica dell’essere alato, fusione carnale di amato e amante: “Disteso sul letto sfatto, l’adolescente si abbandona alfine e lascia che sulle sue reni si chiudano lente e maestose le ali. Stroncato, morso alla nuca, dolcemente ma profondamente placato dal dio, è felice. Lampi! Folgori! No. L’aquila è ricamata su un sudario dove il ragazzo spira.” Nel 1602 Caravaggio dipinge uno dei suoi quadri profani più ammirati e scandalosi, Amor Vincit Omnia. In mezzo a copule surrealiste di oggetti e pieghe vulvari di panneggi, Eros trionfa sopra ogni cosa, conflitti, arti, speculazioni filosofiche. Ha l’aspetto dell’amante adolescente del pittore, Francesco Boneri. Cecco, in nudo integrale, piega la testa in un invito, ha il sorriso radioso tipico delle pause d’amore e sfoggia due grandi ali brune da uccello rapace. L’iconografia di Eros si fonde così con quella di Ganimede.
L’angelo perde probabilmente la sua connotazione sensuale nel Sacrificio di Isacco, per configurarsi come intelletto che salva. In quest’opera Caravaggio perfeziona la tecnica di regia teatrale, di struttura impeccabile di gesti e sguardi. L’episodio da cui trae spunto è uno dei più neri della Bibbia, sufficiente nella sua empietà a distruggere ogni pretesa di libero arbitrio da parte del credente cristiano. Per mettere alla prova l’obbedienza cieca alle sue ingiunzioni, Dio chiede ad Abramo una cosa maligna e innaturale, la scelta di uccidere il figlio che aveva avuto dalla sua sorellastra Sara. Così Abramo porta Isacco in un luogo isolato e si appresta a tagliargli la gola. All’ultimo momento viene fermato da Mastema.
Il malak, l’angelo del Signore, punta con grazia la sinistra verso il cuore di Abramo, mentre la destra è calcata pesantemente sulla mano armata di coltello. La luce dall’alto gli cade su naso e zigomi, delineando un profilo stupendo con una zona d’ombra intorno agli occhi scuri. Lo sguardo che si scambiano l’angelo e Abramo è intensissimo. Il volto del patriarca è sconvolto, l’espressione degli occhi è di una sofferenza così grande da essere ai limiti della follia.
Isacco è poco più di un bambino. Viene tenuto prono con una mano sulla nuca, come in uno stupro, e di nuovo ha il volto di Cecco. Caravaggio rappresenta spesso l’attimo in cui si viene salvati, ma anche quello in cui si precipita nella dannazione o nella morte. Il particolare più lancinante del dipinto è lo sguardo dell’ariete, velato, dolce e innocente, che segue la scena concitata con placida curiosità. Sarà lui a morire al posto di Isacco.
IOKANAAN
Nel Sedicesimo Secolo, Giovanni Battista doveva essere un nome comune. Caravaggio ha un fratello prete che si chiama così, che un giorno, per rivederlo dopo anni e riprendere i contatti con lui, si presenta a palazzo del cardinale Del Monte. Lui nega di conoscerlo. Lo stesso nome viene citato anche in un verbale di polizia del 1603. A quanto pare, il Giovanni Battista in questione è un bardassa, un giovane omosessuale passivo che Caravaggio si divide con il suo sodale Onorio Longhi. Anche in questo caso, lui dice di non conoscerlo. Non ne conosce nessuno nella vita reale, ma dipinge più volte il profeta del deserto che porta lo stesso nome, in opere spesso controverse per i loro sottintesi erotici.
Il Giovanni Battista Doria Pamphilj, più che un eremita penitente, si mostra con l’aspetto di Dioniso. Ha il volto sorridente di Francesco Boneri e sta abbracciato a un capro cornuto, con il corpo nudo in torsione. In mostra a Milano c’erano due tele con lo stesso soggetto, entrambe del 1604: una ispirata come postura al Galata Morente, con il corpo luminoso e il deserto nero intorno. La particolarità di questa versione, ripresa anche nell’altra dello stesso anno, è lo sguardo fuori campo. Il profeta sta guardando qualcosa che noi non possiamo vedere, che lo colpisce e lo turba.
“Soprattutto i suoi occhi sono terribili. Si direbbero due buchi neri prodotti da fiaccole su un arazzo di Tiro. Due caverne nere covo di dragoni, due caverne nere d’Egitto dove i dragoni trovano asilo. Si direbbero due laghi neri agitati da fantastiche lune. (…) E come è magro! Sembra una sottile statua d’avorio. Direi una statua d’argento. Sono certa che è casto, come la luna. È simile a un raggio d’argento. La sua carne deve essere gelida, come l’avorio … Voglio guardarlo da vicino.”
Il San Giovanni Battista conservato a Kansas City spicca sul bruno dell’ambiente circostante. È avvolto da un drappo e dalla pelliccia di cammello degli asceti, un materiale ibrido, grezzo e regale nello stesso tempo. I colori che lo compongono sono come fiammate nette, non solo i ricchi panneggi rossi, che lo avviluppano come una prefigurazione del sangue del martirio, ma anche le masse chiare e oblunghe del corpo. La carne è simile al tessuto, altrettanto ricca e tattile. Splende, s’illumina, raccoglie da sola tutta la luce del dipinto. Il corpo del santo è bello come un fuoco di membra bianche, ma ci sono due particolari che lo collocano nella sfera dell’imperfezione umana. Ha le mani ruvide, arrossate, rovinate dai geloni e dal lavoro. Il suo piede destro è lungo e squisitamente arcuato, ma l’unghia dell’alluce è piena di sporcizia. Eppure riflette la luce, perfetto esempio di quello che Don Delillo ha definito “il tipo di difetto erotico che ti fa venir voglia di smarrirti nell’imperfezione”. Il volto del Battista è protervo, amaro. Gli occhi, grandi e obliqui, rimangono in ombra. Non si capisce bene quali sentimenti comunichino questa mimica e questa postura. Lo sguardo è fosco, misterioso, indecifrabile. La prossemica del corpo sembra suggerire una grande stanchezza. Poi tensione, repulsione, un guardare di nascosto, una chiusura rispetto a qualcosa che si vede e a cui si vorrebbe sfuggire, ma che non si può fare a meno di guardare. Questo qualcosa sta avvenendo fuori dall’inquadratura, nel punto in cui è diretto lo sguardo del Battista. Considerando che ci troviamo nel deserto, potrebbe essere un’allucinazione profetica. La consapevolezza della morte violenta da martire? La seduzione ripugnante e distruttiva di Salomè? Se questo è vero, è probabile che lo stesso tipo di premonizione abbia visitato il pittore stesso.
Questo quadro così occulto e potente, che sembra più grande di quello che è, che dà un’impressione di tremolio da miraggio, deve aver colpito molto anche Derek Jarman. Nell’economia narrativa del suo film su Caravaggio, Ranuccio e Lena sono due amanti che vanno a convivere con il pittore. Ranuccio cede al suo oro, mentre Lena compie una scalata sociale, da prostituta di strada a cortigiana d’alto bordo. Fra Lena e Caravaggio nasce un sentimento d’amore autentico, ed è proprio questo che Ranuccio guarda di sottecchi mentre posa per il Giovanni Battista: l’abbandono da parte del suo oggetto d’amore, che si rivolta alla sua tirannia e diventa indipendente. Durante la visione del film siamo rimasti colpiti dalla bellezza dell’attore che interpreta Ranuccio. Abbiamo scoperto che è Sean Bean: Ned Stark, Lord di Winterfell nel Trono di Spade, prima che arrivasse l’inverno.
IL DESERTO
Oltre a San Giovanni Battista, un altro anacoreta del deserto ritratto spesso da Caravaggio è San Girolamo. Dottore della chiesa fra il IV e il V secolo, soggetto declinato ripetutamente nell’arte moderna come esempio di erudizione e rinuncia, San Girolamo traduce in greco parte delle Scritture, poi si ritira nel deserto siriaco, a meditare e a fare penitenza colpendosi il petto con una pietra. Il volto del santo è carico di molteplici ombre di sofferenza. Sentimenti soverchianti, incomunicabili e mai decifrabili fino in fondo, rinchiudono i personaggi di Caravaggio dentro loro stessi, isolandoli in un modo quasi tangibile.
Nell’epoca di guerra per immagini contro la Riforma Luterana, quest’opera viene dipinta per diffondere i dogmi di Santa Romana Chiesa: la penitenza è necessaria per avere la grazia divina. Strisciando, mutando forma, la retorica del sacrificio è arrivata fino alla nostra era, condizionandoci tutti negli ambiti in cui si esige sottomissione, ad esempio quello lavorativo. Caravaggio è cresciuto nella Milano di Carlo Borromeo, di fatto uno stato di polizia religioso, in cui il teocrate aveva cercato di abolire il carnevale, di separare gli uomini dalle donne e perfino di regolamentare gli sguardi che potevano scambiarsi durante la messa. Borromeo diffonde anche gli insegnamenti di Sant’Ignazio di Loyola, per i quali bisogna cercare di visualizzare il più realisticamente possibile i patimenti della passione e morte di Cristo. Questa è la base spirituale della poetica di Caravaggio. Michelangelo Merisi conosce molto bene le Scritture ed è profondamente cristiano, ma la sua sovrumana capacità di visione riesce a piegare l’ideologia in ogni opera che dipinge. Parte dalla lettera morta del dogma, ma ci svela sempre una verità altra. La pietra di San Girolamo quasi non si vede. L’atto della penitenza, l’impulso universale che spinge ciascuno di noi a punire se stesso, rimane nascosto.
L’Incoronazione di Spine mostra la solita regia superba degli sguardi e delle posture, tipica delle scene caravaggesche di martirio. Cristo, il cui corpo è ispirato al torso del Belvedere, è un uomo anziano fra i quarantacinque e i cinquant’anni. Tiene la bocca socchiusa, alzando lo sguardo sul suo boia in un atteggiamento di sorpresa causata dal dolore e di muta richiesta. Gli aguzzini sembrano stanchi. Uno lo tiene fermo da dietro, le mani sul fianco e sul braccio, ma la sua presa è morbida, quasi gentile. È un gesto molto diverso da quello del carnefice visto di spalle, che afferra con forza il laccio che va a legare le mani. Il momento del calvario raffigurato in questo quadro è estremamente violento: la corona di spine viene calzata in profondità sulla testa mediante una leva. I rivoli di sangue sono numerosi ma minuscoli, quasi invisibili, come la pietra di San Girolamo. Il male, preordinato, funziona in modo meccanico. Non importano i barlumi di empatia. Ognuno fa parte dei suoi ingranaggi, quindi svolgerà il suo lavoro.
La Flagellazione del 1607, è la terza opera di potenza immane che abbiamo visto alla mostra Dentro Caravaggio. Andrew Graham-Dixon riporta che la sua presentazione a Napoli suscitò “un’ammirazione sbigottita, ai limiti del disorientamento.” Come nell’ Incoronazione di Spine e nel San Girolamo, gli strumenti del dolore sono quasi invisibili. Di nuovo c’è una partitura teatrale, un senso soverchiante di monumentalità. La luce piove dall’alto, in forma di colonna. Gli aguzzini hanno fisici pesanti e si esprimono in gesti di sgraziata brutalità. Quello rannicchiato sulla sinistra sta guardando la scena. Il suo volto è in ombra, ma percepiamo che è profondamente attento, come se avesse visto qualcosa di inaspettato. Il corpo di Cristo, con la testa dolente reclinata, i tendini del collo in tensione, il ginocchio sinistro portato in avanti, è bellissimo. Quello che sembra un passo di danza è l’inizio di uno svenimento, l’attimo in cui le ginocchia cedono. I carnefici lo stanno tenendo in piedi per i capelli e per i polsi, legandogli le mani dietro la schiena. Caravaggio, assieme all’intimità aberrante della tortura, mostra la maestà e la grazia che possono esserci nella sofferenza.
THE HEAD IS THE BEST PART
All’inizio del XVII secolo il successo di un pittore si misurava con il numero di incarichi pubblici che riusciva ad ottenere, ovvero di opere commissionate dalle chiese. Dopo il fulminante inizio della Cappella Contarelli, la carriera romana di Caravaggio viene polverizzata da una serie di rifiuti. Il sogno della commissione per un altare di San Pietro si rivela un’illusione, quando la Madonna dei Palafrenieri viene rimossa dal suo posto due giorni dopo la collocazione. Stessa sorte tocca a La Morte della Vergine, rifiutato perfino dai Carmelitani scalzi. I motivi ufficiali sono di decoro, gambe e piedi visibili, scollature troppo profonde, bambini nudi troppo cresciuti, cortigiane famose usate come modelle per la Vergine. Il problema vero, come rileva Andrew Graham-Dixon, è che il Merisi mostrava come “Cristo e i suoi discepoli assomigliassero più ai mendicanti che ai cardinali”. Dopo questa serie di fallimenti, la natura collerica e ipersensibile all’umiliazione del pittore viene spinta al limite e trova sfogo in un omicidio. La sua vittima, Ranuccio Tommasoni, fa il magnaccia. Lui e Caravaggio si contendono Fillide Melandroni, tanto che Andrew Graham-Dixon suppone che il Merisi arrotondi ed eviti di pagare le modelle facendo a tempo perso lo stesso mestiere del suo rivale. Il loro scontro non è una zuffa causata da un fallo al gioco della pallacorda, come attesta la versione ufficiale, ma un duello, che all’epoca è illegale e punibile con la morte. Ranuccio muore dissanguato e Caravaggio scappa da Roma, assieme a Cecco Boneri, che continuerà a far parte della sua vita e dei suoi dipinti fino alla partenza per Malta. Durante la fuga verso Napoli, dipinge un San Francesco Penitente dal volto tormentato, con una postura di totale prostrazione, che mostra di nuovo dei sentimenti di dolore così profondi da risultare impossibili da analizzare nelle loro componenti. In un’altra tela con lo stesso soggetto, San Francesco si specchia in un teschio che tiene fra le mani, esito ultimo di una testa tagliata. La morte a cui il papa Paolo V condanna Caravaggio per l’omicidio Tommasoni è la cosiddetta condanna capitale, da caput, testa. Chiunque riconosca il pittore per strada può decapitarlo seduta stante, e poi andare a riscuotere la taglia. Non è necessario presentare il corpo alle autorità, la testa da sola è sufficiente. Forse le popolazioni primitive non sbagliano ad attribuire agli oggetti artistici la potenza dei feticci magici. La testa mozzata è sempre stata un soggetto ossessivo della produzione di Caravaggio, che ha prestato più volte il suo viso ai grandi decollati della Bibbia, Giovanni Battista, Oloferne, Golia, in un modo inquietante e divinatorio. Circa dieci anni prima di essere condannato, aveva ritratto se stesso nei panni della Medusa decollata e urlante, sullo scudo da regalare a Ferdinando de Medici. Aveva ritratto anche Fillide Melandroni come Giuditta che decapita Oloferne, sette anni prima che Fillide diventi la causa indiretta della sua condanna capitale. Il sangue che schizza in un getto dal collo del re assiro deve essere stato simile a quello provocato dalla ferita mortale inflitta dal pittore a Ranuccio Tommasoni. Michelangelo Merisi uccide il suo rivale in modo spettacolare, recidendogli l’arteria femorale all’attaccatura fra la coscia e l’inguine. È probabile che questa morte sia l’esito di un tentativo di castrazione, a sottolineare la natura passionale del delitto.
Fillide Melandroni diventa Salomè in un dipinto eseguito fra il 1607 e il 1609. Ci sono due volti maschili, il boia e Giovanni Battista, assieme a due volti femminili, Salomè e una vecchia serva, [oppure Erodiade, a seconda delle interpretazioni]. Le linee dei loro sguardi sono disposte lungo due direttrici elusive e divergenti. Il boia guarda Salomè, che guarda nella direzione opposta. La serva guarda la testa, il cui sguardo è perso nella morte. La scena dipinta non è un trionfo. Salomè è distratta, come se il trofeo che ha davanti non avesse nessuna importanza per lei, o come se ne provasse solo repulsione e fastidio. Non possiamo sapere nulla di certo sulla vita emotiva di Caravaggio, ma quest’opera sembra indicare che cosa provasse per Fillide: l’oggetto del suo desiderio, per cui si era ritrovato in un duello che lo aveva portato all’omicidio e alla condanna a morte, era completamente indifferente a queste conseguenze.
Non tutti i critici concordano sulla datazione, ma sembra che uno degli autoritratti decapitati più tragici sia stato fatto nel 1609, anno in cui Caravaggio viene sfigurato durante un agguato a Napoli. L’imboscata avviene nella taverna-bordello del Cerriglio, un posto frequentato da artisti, prostitute, omosessuali e assassini. Dopo esserne uscito, il pittore viene aggredito da quattro uomini armati, probabilmente dei Cavalieri di Malta, che lo sfregiano al volto. Le ferite sono così gravi che forse gli compromettono il senso della vista. Caravaggio dipinge il proprio viso storpiato come la testa di Golia sorretta da David. Intende utilizzare questa tela come dono, in cambio del quale avere la grazia.
“Pregai perché mi amasse. Pregai perché egli fosse davvero quel che bisogna essere per potermi amare. Già sapevo che m’avrebbe portato incontro alla morte. Ora so che tale morte sarà bella. La sua morte sarà violenta, e la mia la seguirà da presso. (…)”
“L’amore che nutro per la bellezza ha desiderato a coronamento della mia vita una morte violenta, o meglio cruenta. (…) [La morte per decapitazione:] una gloria simile non è umana.”, ha scritto Jean Genet in Miracolo della Rosa.
“Avremo dunque una bella morte. Sarà terribile e sontuosa.”, continua ne Il Balcone. La decapitazione, la morte che Michelangelo Merisi si era scelto, è una morte gloriosa, degna dei re e dei profeti, inflitta a chi ha un surplus non tollerabile di autorità, carisma, intelligenza e potere. Lui voleva morire così.
Nel suo biopic, Derek Jarman fa dire a Caravaggio una frase scioccante: “La mia pittura è un naufragio. (…) Non c’è a Roma un rudere più rovinoso della mia pittura.” Nonostante non abbia mai cambiato modo di dipingere, è molto probabile che ci sia stato un momento in cui, sopraffatto dai rifiuti e dal mutare capriccioso dei gusti della committenza, Caravaggio sia giunto a conclusioni simili. Verso la fine della sua vita, Michelangelo Buonarroti ha affermato: “La pittura e la scultura, la fatica e la fede m’àn rovinato, e va tuttavia di male in peggio. Meglio m’era ne’ primi anni che io mi fussi messo a fare zolfanelli, c’i’ non sarei in tanta pasione.” Vincent Van Gogh è stato ancora più esplicito: “Ho messo il mio cuore e la mia anima nella mia arte, e ho perso la mia mente durante il processo.” Guardando a questi tre mostri sacri, ci viene da fare una riflessione sul nostro tempo, che ha assistito a una triste epidemia del fare arte. Così ora tutti siamo artisti, ma nessuno di noi – né i dilettanti né chi ha conseguito qualsiasi grado di successo – è capace di produrre opere di rilievo. Non è l’impegno che manca, né la costanza, né l’istruzione. Eppure tutta la nostra arte è pessima, inessenziale, di cattivo gusto, imitativa, ruffiana, priva di grandezza. La padronanza delle arti è la nostra grande illusione generazionale, e il risveglio da questa illusione ci aspetta tutti al varco, per farci a pezzi. Forse perché l’arte ha qualcosa di profondamente maligno, che riguarda la sfera del divino. Dà conoscenza, illumina, consola, può diventare ragione e perfino fonte materiale di vita, ma nello stesso tempo acceca, schianta e rovina. Lo fa con tutti, grandi e piccoli. Lo farà con tutti noi e lo ha fatto anche con Caravaggio, negandogli la morte gloriosa che si era scelto.
Nell’estate del 1610 iniziano a diffondersi delle voci, che arrivano fino a Napoli dove il pittore è stanziato: sembra che la grazia papale per l’omicidio Tommasoni sia imminente. Nonostante la salute compromessa dall’aggressione al Cerriglio, Caravaggio parte via mare per Roma, con tre opere imballate nella stiva. Non ci ricordiamo di preciso quali, forse le ultime versioni del Giovanni Battista, o il David con la sua testa, oppure la Salomè. Devono arrivare a destinazione a tutti i costi, perché servono a pagare il suo protettore Scipione Borghese, per l’intercessione della grazia presso il papa. Le notizie viaggiano in modo discontinuo, la revoca della condanna capitale è ancora incerta, il suo status giuridico indefinito. Così in uno scalo Michelangelo Merisi litiga con le guardie, viene arrestato e trattenuto. Quando lo rilasciano, la feluca su cui sono stivate le sue tele è ripartita. Lui si procura dei cavalli e parte al suo inseguimento, per cercare di intercettare l’imbarcazione allo scalo successivo. Durante il tragitto lo coglie una morte soverchiante, da logoramento, sotto forma di colpo di calore, o di infarto, o forse di attacco di febbre malarica. Caravaggio muore inseguendo la nave con i suoi quadri. Contrariamente a quello che aveva creduto lungo tutto il corso della sua folgorante vita, l’arte non lo aveva salvato.
BIBLIOGRAFIA
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Andrew-Graham Dixon, Caravaggio. Fra sacro e profano. Mondadori, 2010.
Costantino D’Orazio, Caravaggio segreto. Sperling & Kupfer, 2014.
Rodolfo Papa. Caravaggio. Milano: La biblioteca dell’arte, 2005.
Creighton E. Gilbert, Caravaggio and His Two Cardinals, The Pennyslvania University Press, 1995.
Maurizio Calvesi, Le realtà del Caravaggio. Einaudi, 1990.
Jean Genet, Il Funambolo e altri scritti. Adelphi, 1990.
Jean Genet, Miracolo della Rosa. Il Saggiatore, 2006.
Don Delillo, Underworld. Einaudi, 1999.
Oscar Wilde, Salomè. Rizzoli Libri, 2001.
Jhonn Balance, The Golden Age of Bloodsports. Cornell University Library, 2014.
Tom Wolfe, Radical Chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto. Castelvecchi, 2005.
https://it.wikipedia.org/wiki/Caravaggio
http://www.cultorweb.com/Caravaggio/CC.html [questo sito è molto bello]
DISCOGRAFIA
Coil – How to Destroy Angels
Coil – The Ape of Naples (Full Album)