Arte Fiera? Impossibile rimanere lucidi, essere obbiettivi, e riuscire a vedere tutto ciò che meritava di essere visto. Tralasciamo magari il fatto che era vietato uscire, (decomprimere e rientrare) senza dover ripagare i diciotto euro del biglietto. Le biglietterie che aprivano alle undici del mattino con già cinque metri di coda. La paurosa orda radical chic e gli svariati cloni di Briatore. Perché, a parte questo, ad Arte Fiera c’era anche dell’altro.
Le mascherine fatte con vecchi vinili di Carlos Aires, con sagome di corvi, pornostar, crocifissi, soldati, profughi ed angioletti armati di kalashnikov. Le file di bidoni della spazzatura di Chus Garcia, colorati, lucidissimi e con le ruote dorate.
Le due pale di altare di Nicola Verlato, con James Dean in precipitazione giù da un pozzo di petrolio in fiamme, su un toro con le pupille bianche come una statua.
Bertozzi e Casoni hanno esposto un conglomerato di cassettine del pronto soccorso, con croce rossa su fondo bianco. Dei piccoli vani socchiusi, con dentro blister di medicinali, spugne per i piatti, sigarette, lattine di coca-cola cinese, bombe a mano, confezioni di borotalco Felce Azzurra, madonnine di plastica, tubetti di dentifricio dell’Antica Erboristeria. Un contenuto diverso per ogni armadietto. Ciò che li accomuna sono delle celle di alveare che vanno a comporre un cervo, e uno strato di muffa che ricopre ogni cosa. Tutto rigorosamente in ceramica.
Dioniso Gonzales apre panoramiche su favelas di cubicoli abitativi in stile William Gibson, in bilico fra degrado ed estro architettonico.
Primoz Bizjak fotografa palazzi non finiti, affetti da confusione dimensionale: sembrano ruderi illuminati da dentro, ma in realtà la luce è quella della strada, perché la fotografia è realizzata dalla prospettiva interna.
Per il vedutismo fotografico ricordiamo anche Hrair Sarkissian, con le sue fughe prospettiche di piloni in cemento armato su allagamenti a specchio.
Fra i fotografi legati all’indagine antropologica invece, Missirkov & Bogdanov, che propongono i Veterans of Culture: foto-ritratti in stile americano di anziani attori, scrittori, cantanti, sottotitolati da didascalie che descrivono i loro sogni infranti come se si fossero realizzati.
Poi i clochard addormentati di Paola di Bello, sospesi in verticale come se fluttuassero in un sogno separato ed interdetto.
Infine, in una categoria a sé stante, Thomas Struth, che propone una rivisitazione del Viandante sul mare di nebbia di Friedrich, ambientandola però in un interno: due spettatori di spalle fotografati davanti a un’opera di Rothko, nella Rothko Chapel di Houston.
Alcuni mostri sacri. Il progetto di Christò per impacchettare il Reichstag.Spiral Jetty fotografata da Gianfranco Gorgoni. Il Trittico Psychè di Gina Pane: primo piano sul volto con le palpebre bistrate di sangue, lacrime sulle guance e croce incisa sul ventre, come a focalizzare la mappatura corporea della conoscenza, della visione, della facoltà di creare.
Vanessa Beecroft: monumenti funebri, corpi bianchi come statue, morti su un catafalco/piedistallo.
Umberto Chiodi ha mischiato lacerti di corpo, pezzi di animali impagliati, teschi di erbivoro, libri, paramenti da sacerdote e vecchie cartine dell’Italia, per un risultato a metà strada fra l’atlante anatomico del secolo decimo nono, i codici di meraviglie di viaggio dell’epoca di Marco Polo, le pale cardinalizie di Hermann Nitsch, e il padiglione dei freak.
Matteo Massagrande dipinge porte, ombre, detriti: luoghi di passaggio in posti abbandonati, con pavimenti a scacchi. Come in una loggia psichica di David Lynch, ma con toni color perla.
Stefano Ricci: grossi cartoni e segno grezzo, per descrivere fantasmi in chimono dietro ad un asino/coniglio mascherato.
Nicola Samorì: ritratti liquefatti, corrosi e scuri, sulla falsariga che congiunge Caravaggio a Francis Beacon.
See Hyoung Lee riprende il vedutismo cinese del XV secolo portandolo ad una resa iperreale, collocandolo negli spazi bianchi vuoti dei vasi Ming, con le gamme del rosso al posto del blu.
Giacomo Costa mette in scena visioni di bidonville infuocate, invase dalla giungla, in cui il decadimento arriva a toccare lo stato della dissoluzione, e lo spettatore viene investito da un’impressione di instabilità, pericolo, fine. Private Garden è un polittico di grande formato fatto di scheletri di palazzi, tubature scoperte, rami taglienti come rovi. Il loro colore calcinato si amalgama con verdi cupi e cannibali.
Tanja Boukal lavora invece col bianco: bianche teste di bambino in contenitori industriali per uova. Inner Security: neonati a cerchi concentrici, e nel mezzo, nel posto più sicuro, cumuli di bambini bianchi smembrati.
Insomma, un’iper-saturazione per ogni medium artistico ed ambito discorsivo: pittura, fotografia, installazione, artisti italiani più e meno giovani, superstar extraeuropee, fascinazione per la morte e spirito pop. Dagli apocalittici agli integrati, per arrivare infine a tutto quello di cui non si è detto.
Pubblicato il 12 febbraio 2010 su Whipart