Non abbiamo grandi ricordi di tatuaggi nella nostra infanzia anni Ottanta. Considerando che fin dalla nanitudine abbiamo avuto occhi predisposti a fissarsi su cose strane, all’epoca non dovevano essercene molti. Ricordiamo vagamente i bambulè rovinati sulle mani dei drogati alla stazione delle corriere, un po’ di roba da galera alla GG Allin sui peggio punk, qualche rosellina nascosta sui corpi delle ex groupie fricchettone. I primi tattoo di cui abbiamo davvero memoria sono i tribali degli anni Novanta. Grossi, neri, pieni, con le loro virgole e corna acuminate, tatuati sopra ai bicipiti gonfi dei coatti e sui fondoschiena delle burine, perlopiù privi di significato per i loro portatori. Questi tatuaggi, escludendo l’apporto di grandi maestri come Alex Binnie, non ci sono mai piaciuti. All’epoca ci piacevano i biomeccanici, gli squarci iperreali della carne che lasciavano intravedere ingranaggi cibernetici e sistemi venosi gigeriani posizionati sotto cute. Il nostro sogno adolescente era di farci un intero braccio biomeccanico, che avrebbe fatto la sua porca figura sia ai concerti black metal che sotto cassa ai rave tekno. Per fortuna, tirando un enorme sospiro di sollievo, questo nostro sogno non ha avuto modo di realizzarsi. A cavallo fra i due millenni c’è stato il periodo del giapponismo, che abbiamo amato come tutto ciò che proviene dal Giappone, senza però praticarlo. Abbiamo sofferto molto nella successiva temperie del revival tradizionale, perché, pur apprezzando la maestria mozzafiato di alcuni artisti e il risultato finale su Suicide Girls e freaks del tatuaggio semi-integrale, tutti quei dannati colori ci ferivano la retina e ci facevano sentire fuori dai giochi. Fortunatamente la tirannia policroma è finita. Finalmente è iniziata l’era del Blackwork, il tatuaggio nero in tutte le sue declinazioni, che vanno dalle incredibili geometrie sacre a frattale di Thomas Hooper, all’elegante pulizia lineare di Chaim Mahlev, fino ai neotribali sciamanici, densi ed appresi dai maestri locali durante i viaggi globali di Guy le Tattooer. All’interno del Blackwork c’è uno stile che amiamo in modo particolare. Uno stile figurativo, densamente simbolico, che si rifà ai bestiari, agli erbari, ai trattati di anatomia, alle Totentanz, all’arte sacra, alle raccolte di emblemi e alla scuola dell’incisione tedesca del Sedicesimo Secolo. A differenza dei mandala, dei neotribali, dei geometrici lineari, questo tipo di tatuaggio non tende all’astrazione ma alla narrazione. Assieme al tradizionale, questo stile è l’unico che può trasformare il corpo in un libro di carne, in grado di raccontare (e non solo marcare) le vicende della storia del suo portatore. E’ sicuramente quello più storicamente rappresentativo della cultura artistica europea. Per la sua origine nordica, per la sua vocazione figurativa che ha radici nell’ossessione simbolica medievale, per la sua meravigliosa cupezza, lo chiameremo Gotico Monocromo, o Gothic Blackwork. Di seguito vedremo, in un ordine assolutamente casuale, chi sono i nostri esponenti preferiti di questo stile.
IL NECROMANTE
Rafel Delalande ha un meraviglioso logo in stile metal norvegese che sembra un incrocio fra quello dei Darkthrone e quello degli Absu, ed è sicuramente uno degli artisti più neri del Blackwork. In effetti ci sovviene che negli anni Novanta c’è stata anche una sotto-corrente di tatuaggio un po’ metal, di derivazione gigeriana/lovecraftiana/fantasy, che amava rappresentare soggetti demoniaci e cruenti. Rafel Delalande prende questa corrente, ne depura gli aspetti meno nobili, sottrae tutto ciò che può essere di cattivo gusto, e mette in mostra le sue radici, facendo una ricerca iconologica che arriva alle fonti artistiche di questi soggetti. Nella sua produzione abbondano demoni, di varia estrazione dalla storia della demonologia figurativa, con diavoli in stile tatuaggio sovietico, capri sabbatici, citazioni della Divina Commedia con Satana che divora Giuda, Bruto e Cassio, cacce selvagge con stregoni dalle teste animali usciti da De Lamiis et de Pitonicis Mulieribus di Ulrich Molitor che cavalcano in direzione del sabba.
Il segno di Delalande è molto scuro e corposo. Fra i suoi pezzi da bestiario ci sono molte teste o crani di animali dalle grosse corna ricurve, capri e mufloni, generalmente fatti sul petto dei suoi committenti. C’è anche un esemplare di lupo nero in una posa mobile, ferina e scattante, con la falce di luna fra gli occhi bianchi, che sembra sgusciato fuori da un artwork dei Moonspell.
Tre grossi chiodi neri vengono riprodotti con una grana materica, rovinata, piena di asperità e frastagliature. Potrebbero essere i tre chiodi usati per crocefiggere Cristo, che a quanto pare misuravano nove pollici (da cui il nome dei Nine Inch Nails). Delalande ha realizzato lavori presi da crude immagini di trattati di anatomia, con sezioni plurime di crani. Rafel Delalande rappresenta delle immagini classiche dell’iconografia artistica medievale e moderna: l’eroe sauroctono San Giorgio, orribilmente torturato e resuscitato dalla morte per ben tre volte, la Morte e la Fanciulla, monito contro la vanitas della bellezza terrena, la Morte che gioca a scacchi con un uomo, topos ripreso da Ingmar Bergman per Il Settimo Sigillo.
IL GIOIELLIERE
Marco Matarese crea un campionario di volti di statue classiche, su cui si aprono le crepe della decadenza.
Il suo soggetto di elezione sono però gli ex voto. Matarese rappresenta due tipologie distinte di ex voto, quelli tradizionali, cuori fiammeggianti, istoriati di motivi floreali, con cesellature da gioielliere, ma anche quelli anatomici più arcaici, in cui, invece del cuore, veniva raffigurato l’organo soggetto alla guarigione miracolosa, gli occhi, la bocca, i denti, gli intestini.
Gli ex voto sono segni di sofferenza, una sofferenza così totalizzante che porta chi la subisce a pensare ossessivamente ad essa tramite la forma della preghiera. La sua cessazione è vista come qualcosa di innaturale, quindi un miracolo. Al miracolo viene data la forma fisica del gioiello votivo. Questi gioielli significano “sono sopravvissuto”. Gli ex voto esistono dall’antichità, quindi da prima della civiltà cristiana. Se quelli più comunemente noti sono in filigrana d’argento, molti erano fatti d’altri materiali, come la cera o l’argilla. Il tratto che accomuna questi materiali è la malleabilità, perché ciò che rappresentano e sostituiscono è la carne del corpo. Quale migliore supporto ad un ex voto del corpo stesso? Matarese tatua cuori circondati da corolle d’argento, un cuore fiammeggiante che si invola sopra le ali di due corvi e cuori semi-anatomici intrappolati in una corona di spine.
WALDEN
Kamil Czapiga crea chiaroscuri netti servendosi di linee, sfumature e dotwork. Come tutti gli artisti del Gothic Blackwork, Czapiga crea tatuaggi fortemente connessi alla rappresentazione della morte, alla caducità e all’elaborazione del lutto. Ad esempio la sagoma nera di un gatto coricato sul fianco, come se fosse visto dentro ad una fossa scavata amorevolmente, che mostra il suo bianco scheletrino all’interno. Un altro lavoro raffigura lo spettro vocale delle voci dei genitori del committente.
La mosca, l’osso della mandibola, il dente, sono tutti elementi collegati alla simbologia funebre: la mosca depone le sue larve nella carne in putrefazione, la caduta dei denti simboleggia la vecchiaia e il declino, la mandibola divelta è indice dell’incapacità di nutrirsi e quindi di sopravvivere. Un’altra suggestione forte nel lavoro di Czapiga si connette ad un panorama di foresta vergine, un luogo inviolato, in cui crescono funghi magici e in cui si muovono creature non umane. La rana, animale simbolo della Grande Madre e dei genitali femminili, vista al centro di una losanga che rappresenta la fertilità, è collegata con la generazione ed il parto. Le fronde di quercia rappresentano l’eternità e il mondo dei morti. La quercia era un albero sacro a Perun, il dio precristiano di area slava del tuono e del fulmine, colui che percuote e che non può essere nominato. Kamil Czapiga raffigura spesso statuari volti barbuti, provvisti di corna di cervo, arborescenze vegetative che spuntano dal cranio, terzi occhi chiaroveggenti. Questi volti rappresentano gli dei silvani della mitologia proto-slava, i guardiani delle foreste che indagheremo meglio in relazione alla simbologia del cervo.
IL MAESTRO DELLA LINEA
Kolahari si distingue per la peculiarità e per la perfezione ipnotica del suo tratto, che si rifà alle origini dell’incisione, con le xilografie fitte di linee dense delle Danze dei Morti di Hans Holbein. Le sue texture di linee richiamano alla mente l’archeologia della stampa, sono fluide e piene di ritmo. Kolahari non ha bisogno di utilizzare il chiaroscuro per dare corpo alle sue creazioni, lo fa tramite la linea, con cui riesce a rendere sia la sensazione tattile delle cose rappresentate che l’idea della profondità. I suoi soggetti privilegiati sono gli scheletri. Scheletri animati, usciti dal XIII Arcano Maggiore dei Tarocchi, nell’atto di scambiarsi effusioni amorose, Madonne ossute col Sacro Cuore, Grandi Mietitrici incappucciate di nero che sollevano la clessidra del tempo che scorre, guerrieri morti con la spada al fianco che hanno perduto sia la testa che il cuore, scheletri tibetani danzanti. Un altro tratto caratteristico di Kolahari è la rappresentazione di borghi da fiaba, alberati e stellati, dentro a cuori o bocce rotonde di vetro. Queste cittadelle raffigurano i nostri piccoli mondi, che sono sempre piccoli, a misura d’uomo: anche quando abitiamo in grandi metropoli, il mondo che riconosciamo come nostro è sempre circoscritto alla nostra misura, alla gittata dei nostri passi, al nostro quartiere. Kolahari rappresenta degli scenari tipici dell’immaginario dell’Europa nell’Età di Mezzo: la jugulatio di Santa Lucia, i villici che vanno a prendere la strega armati di forconi, l’eremita che attraversa la selva oscura armato solo di una lampada per fare luce.
Le atmosfere di quel Medioevo che nell’immaginario e nella nostra percezione si è prolungato ben oltre il Sedicesimo secolo vengono ibridate da Kolahari con creature contemporanee, come un Edward Mani di Forbice simile a Pierino Porcospino o il chitarrista blues che fa il patto col diavolo sul crocicchio.
IL TRICKSTER
Massimo Gurnari affronta la materia del Gothic Blackwork con un’attitudine ironica e caricaturale. Il cervellotico Freud è rappresentato con un testone abnorme, il re del turpiloquio Mosconi in un busto da filosofo classico con la scritta “Se non bestemmio guarda”. C’è un medico della peste che indossa i suoi soliti paramenti funebri ma sta in una posa che sembra uscita da un balletto di Michael Jackson. Ad una Madonna che si mostra in un’epifania di nuvole, putti e spade nel cuore viene rivolta la preghiera “Salvami dai tuoi fedeli”. Nell’ultima cena leonardesca l’animazione degli apostoli è data dall’assenza scandalosa del maestro, che invece di bere l’amaro calice si è dato alla fuga. Un altro santo non proprio canonico è il Grande Lebowski, che si mostra con i suoi attributi tradizionali, White Russian, cannone d’erba, accappatoio di spugna, occhiali scuri a goccia, per benedire con un torpore ridanciano e nullafacente i suoi fedeli dudeisti. Gurnari eccelle anche nel Gothic Blackwork più tradizionale: l’Appeso dei Tarocchi che perde soldi da due scarselle, con le scritte latine beneauguranti Post Fata Resurgo, dopo la morte mi rialzo, e Post Nubila Phoebus, dopo le nuvole spunta il sereno. Massimo Gurnari è anche un ottimo cesellatore di ex voto. Ne ha fatti di fioriti, fiammeggianti, sanguinanti, o nell’inedita versione nautica, coronati dalla tempesta marina e dal polipo gigante, creatura tentacoluta che simboleggia in maniera ambivalente sia il caos che l’ordine, il pericolo e l’astuzia metamorfica. Poi ci sono i santi. Nella produzione di Gurnari ci sono Madonne piangenti, trafitte da sette grandi spade, ammiccanti dentro a delle gabbiette. C’è un Gesù un po’ BDSM con la parte superiore del volto nascosta da una banda nera, un coltello infilato in una delle stigmate delle mani, mentre l’altra mano impugna una frusta. Una Madonna con il passamontagna (che è anche il logo del tatuatore), un po’ criminale per la sua latitanza, viene esortata con la formula “Mostrati a me”. Un’altra Madonna, invece di schiacciare il serpente sotto i piedi, lo fa uscire dalla bocca e dagli occhi, riconoscendogli infine lo status di simbolo di conoscenza ed immortalità e facendo in questo modo outing sulla sua vera natura, quella di Grande Madre.
L’ARCHEOLOGO ICONOCLASTA
Andrey Svetov apporta il suo contributo originale alla tassonomia figurativa del Gothic Blackwork con tatuaggi che rappresentano cattedrali, ovviamente gotiche, marcando l’identità fra queste grandiose architetture medievali, concrezioni terrestri della mente di Dio, veri e propri libri di pietra che servivano a raccontare storie sacre, e i corpi umani decorati con questo stile di tatuaggio, che più di ogni altro è funzionale a criptare storie tramite simboli figurativi.
Svetov tatua due serafini senza volto, circondati da ali rotanti. Ricrea emblemi come quelli cinquecenteschi di Andrea Alciato, Hadrianus Junius o Pierre Coustau, ad esempio la mano che viene morsa da un serpente sopra ad un fuoco. Nel libro di emblemi eroici di Claude Paradin, in cui era affiancata alla scritta latina Qui contra?, l’origine di quest’immagine è indicata nell’agiografia di San Paolo: morso da una vipera sull’isola di Malta, la getta nel fuoco ed illeso dice “Se Dio è con noi, chi ci è contro?” Andrey Svetov attinge alle radici più antiche dell’arte, proponendo motivi meandro-spiraliformi che arrivano dai manufatti ceramici della preistoria, quando la geometria incisa su vasi e pesi da telaio funzionava come una scrittura ad ideogrammi, mediante la quale si consacravano i manufatti alla Dea della Vita e della Morte. Altri labirinti geometrici arrivano dai ricami tradizionali slavi, la cui origine si perde nella notte dei tempi, esattamente come accade per le geometrie fittili. Vita e Morte si fondono nel lavoro che mostra un feto perfettamente formato, che fluttua nel suo carapace d’osso a forma di cuore. Stessa simbologia per la gabbia toracica da cui spuntano ali di farfalla, insetto che simboleggia l’anima a confronto con i resti mortali. Svetov crea una figurazione brutale in cui il cerchio dell’eterno ritorno, il rettile uroboros, spezza la sua coazione a ripetere facendosi decollare da una ghigliottina. Un’altra allegoria occidentale che viene brutalizzata è la Fortuna, la dea con la fronte capillata e la nuca priva di capelli a cui aggrapparsi, che governa la Ruota di chi scende e di chi sale. Nostra sorella Sorte viene rinvenuta crivellata di coltellate sopra la sua ruota, lo strumento con cui è solita infierire sugli uomini.
IL MAESTRO
La simbologia precristiana che lega vita e morte viene espressa da Ien Levin con l’immagine di un feto all’interno della sagoma di un teschio. Levin attinge alla storia dell’arte, alla mitologia e al folclore tatuando – principalmente sulle mani – la strige, detta sirin nella mitologia russa, donna con volto umano, seni scoperti, ali ed artigli da uccello rapace. La strige è la prima sirena della mitologia greca, la prima forma di questa creatura ibrida, prima che diventasse donna con la coda di pesce. La troviamo come demone tormentatore delle anime nel bosco dei suicidi, nel VII Cerchio dell’Inferno di Dante, nell’araldica medievale e nelle illustrazioni della fiaba russa di Vassilissa ad opera del grande Nicolaj Bilibin. Ossa incrociate come nel vessillo dei pirati, simbolo di morte e distruzione, vengono accoppiate ad una falce di luna con all’interno un motivo meandro-spiraliforme. Questo motivo era utilizzato nel Neolitico per simboleggiare l’acqua come sorgente di vita, quella delle maree, delle fonti salvifiche, delle acque che si rompono per annunciare la nascita imminente. Ien Levin rappresenta il demone Buer, un mostriciattolo con sei zampe rotanti, utile per imparare l’utilizzo corretto delle erbe. In un’altra opera dal labirinto di Chartres scaturisce una splendida rosa, ripresa dal Summum Bonum di Robert Fludd: rappresenta l’oggetto supremo della ricerca terrestre, simbolo di totalità e rinascita. Ien Levin ha creato e raffigurato gran parte dei topos figurativi del Gothic Blackwork, dal cervo alla chiave, dall’aquila al corvo, dalla balena al teschio di animale. Vedremo in che modo il maestro ha sviluppato i motivi ricorrenti del Gothic Blackwork nella seconda parte dell’articolo.
IL SURREALISTA
Come un altro importante tatuatore che vedremo in seguito, anche Otto D’Ambra è legato ad un immaginario ottocentesco e contemporaneo piuttosto che medievale. Ma possiamo ascriverlo al Gothic Blackwork per la sua mania di frugare fra bestiari ed ossari, nonché per la natura spesso nera e gotica sia del secolo vittoriano che del Surrealismo contemporaneo. D’Ambra ama fare montaggi onirici fra vari animali, come un dottor Frankenstein che si diletti a montare chimere. Avremo un dandy ossessionato dal tempo, con la faccia sdoppiata e il corpo da uccello. Un pesce con il muso da pennuto. Un centauro in doppiopetto, con la testa di uccello rapace, le mani a tentacolo che non mollano mai quello che riescono ad afferrare e il cuore vacante in un buco nel petto. Un cervello innestato sui tentacoli di una piovra. Del XIX secolo Otto D’Ambra abbraccia l’ossessione visiva, che esprime rappresentando svariati dispositivi di visione: il microscopio, visto in mezzo ad un profluvio di fiori, la cinepresa del cinema delle origini, che sostituisce la testa per i Kinoki ideali di Dziga Vertov, l’apparecchio televisivo, che si trasforma nella testa spiona di un uccello, nella mania desiderante di un coniglio, o in una specie di medusa, con i tentacoli e il cuore che batte sullo schermo.
Un’altra tematica forte nella produzione di Otto D’Ambra è la cattività, che viene simboleggiata mediante delle gabbiette che entrano nel gioco degli innesti surreali, diventando parti del corpo dei loro portatori. Un gatto è prigioniero della sua fissa per gli uccelli. Un gufo ed un altro pennuto vorrebbero far volare il proprio cuore fuori dalla gabbia.
Stessa cosa per una signorina riccamente vestita, prigioniera di se stessa.
IL SIGNORE DEGLI ANIMALI
Valentin Hirsch è uno degli artisti più devoti alla tradizione del bestiario. Ha raffigurato orsi, oche, serpenti, corvi, cervi, piccoli uccelli, aquile, meduse, volpi, gufi, trichechi, falene, elefanti, coleotteri, rondini, aironi, scimmie, cavalli, pantere, tigri, cormorani, leoni, squali, tartarughe, lupi, lepri, balene, trote, gatti. Hirsch utilizza spesso l’espediente dello split screen, dividendo in maniera simmetrica e precisa volti, musi animali o teschi, e ricombinandoli in vari modi, specularmente, rovesciandone una parte, inserendo fra le due metà altri elementi. Gli innesti fra animali di Valentin Hirsch hanno spesso esiti totemici, come nel lavoro in cui il lupo e la pecora, preda e predatore, si innestano in un unicum. Hirsch ha creato anche un mostro proteiforme, in cui braccia umane spuntano da una bocca famelica da cui escono volando degli uccellini, e sopra cui si forma una massa metastatica che ricorda il profilo di un condor. La vocazione mostruosa viene confermata in uno splendido lavoro in cui un serpente si avvolge in spire a forma di otto, senza mai rivelare la propria testa. Solidi irregolari compaiono molto spesso nell’opera di Hirsch, derivando forse dalla dichiarata discendenza artistica dall’incisione cinquecentesca, da quella che è probabilmente la più famosa incisione del più grande maestro, Melencolia I di Dürer. Di quest’opera Hirsch rappresenta la donna alata dal volto nero, simbolo della nigredo alchemica, e un solido, una sorta di pietra nera romboide, che rappresenta sia l’inizio che la fine del processo di trasformazione. Valentin Hirsch realizza un’opera in cui un piccolo passeriforme si erge su un solido irregolare indossando un cappuccio da falco, di quelli che i falconieri utilizzavano per poter addomesticare il rapace, tenendolo in una condizione forzata di cecità e dipendenza. L’epaulette tatuata sulle spalle è un omaggio al tatuaggio tradizionale dei criminali russi, modernizzato con l’aggiunta di un teschio felino al centro.
IL NICHILISTA
Maxime Büchi eccelle nella rappresentazione di geometrie sacre di grande formato e nella riproduzione di opere dei maestri dell’incisione, come Hans Baldung Grien, con i suoi sabba vorticosi di streghe nude. Raffigura due inquietanti scheletri di spalle, che ballano e suonano le percussioni sotto alla scritta che celebra l’autodistruzione, Cupio Dissolvi, “voglio morire”. Scompone gli elementi esoterici della celeberrima incisione di Dürer Melencolia I, ponendoli sul petto del committente: il quadrato magico, che si rifà alle quattro fasi dell’alchimia, la borsa che rappresenta la ricchezza, le sette chiavi, che indicano le sette operazioni alchemiche, il cane, simbolo di Mercurio morente, acciambellato come l’uroboros, il pipistrello indicante la putrefazione che precede la rinascita, la sfera della coincidenza degli opposti, il parallelepipedo imperfetto, il crogiolo, con l’unione dei contrari acqua e fuoco.Cita nuovamente Dürer, con Caino che uccide Abele.
Maxime Büchi sceglie spesso di riprodurre antiche incisioni che fanno da commentario alla vanità della conoscenza umana: il filosofo che specula sul funzionamento dei cieli guardando la sfera armillare, di fronte al suo costoso libro, mentre uno scheletro gli ricorda la natura terrestre degli uomini, porgendogli un teschio, oppure l’etera Fillide che cavalca nuda sopra la schiena del sommo Aristotele, piegato ad ogni suo volere. La Sors, ovvero la Fortuna, era un elemento molto forte e presente nell’immaginario medievale, come attestano ad esempio i Carmina Burana. Büchi raffigura la Ruota della Fortuna, con la dea bendata che dispone dello strumento meccanico che decide ci scende e chi sale, ripresa da un’incisione del 1509. Rappresenta il medico della peste, su pianelle rialzate dei legno, con bacchette per spostare le vesti dei pazienti da lontano, e con il tipico ed infernale becco ricurvo, che veniva riempito di erbe e pezzuole imbevute di aceto balsamico per evitare il contagio della mal-aria.
L’ONNIVEDENTE
Alessandro Florio ha un tratto molto scuro, granuloso, che sprofonda in linee curve. Il suo immaginario attinge alla magia nera, al romanticismo satanico, con teste di pipistrelli mostruosi da Bram Stoker’s Dracula, diavoli ghignanti, Sacri Cuori che si rovesciano al posto della croce, a formare una picca infuocata e crivellata di spade. Florio rappresenta sul palmo della mano di un committente il sigillo di Astaroth, il principe dell’inferno preposto all’esercizio della pigrizia, della vanità e del malefico razionalismo. Il suo nome viene dalla storpiatura e demonizzazione della dea fenicia Astarte, o della babilonese Ishtar, Grande Madre, dea della fertilità e della guerra. In un altro lavoro compare il ragno, simbolo di predazione, capacità d’attesa, comunicazione, abilità dialettica e poetica. Alessandro Florio eccelle nella rappresentazione delle mani, simbolo di potenza e regalità, che nelle sue opere risultano allungate e affusolate. Un motivo ricorrente dell’opera di Florio è l’occhio. L’occhio è connesso con un’antica Dea della Morte che veniva adorata in Francia, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Siria e Iugoslavia, i cui occhi enormi da strigiforme venivano incisi in prossimità delle necropoli. In tempi meno arcaici l’occhio rappresenta la capacità di espressione, il potere carismatico, la saggezza, la comprensione. È collegato anche con la simbologia sessuale. In relazione al simbolismo dell’occhio Florio ha rappresentato divinità maschili onnivedenti, come lo slavo Swietovid o il creatore indiano Brahma.
LA LADY VISIONARIA
Kelly Violence ha uno stile pieno di particolari, con ombre profonde e ricche, sfumature articolate in dotwork puntinati, tracciati curvilinei che danno ai disegni una tridimensionalità avvolgente. Raffigura due teste femminili poste come un’erma bifronte, con venature ed anatomie in evidenza. Queste teste vanno a formare il perimetro di una farfalla, sotto ad un occhio che proietta i suoi raggi. Dal trattato di anatomia esce anche un torso maschile elegante ed eviscerato. Violence eccelle nei chestpiece, i tatuaggi che vengono posizionati nelle scollature come gioielli permanenti. Spesso hanno il cuore anatomico come punto focale, che può essere sorretto da un corvo e un gufo ad ali spiegate, oppure circondato da fregi barocchi. In un altro chestpiece il cuore viene simbolicamente sostituito da una gabbia vuota, circondata da fiori e uccellini liberati. Kelly Violence utilizza un tipo di simbologia collegato con la rappresentazione delle antiche divinità femminili, ad esempio la lepre, animale ctonio e lunare presso Celti, Ottentotti, Aztechi, Greci, Cinesi ed Egizi. La lepre, simbolo di fecondità e lunga vita, viene ritratta mentre spunta da una mezzaluna, dalla quale penzolano teschi di uccello.La rana è simbolo di rigenerazione, perchè le sue zampine ricordano per la posizione divaricata le gambe delle partorienti.Il gufo è emblema della Madre dei Morti, dei nostri antenati, della malinconia che sfugge la luce, e dell’ultima Moira, Atropo, colei che recide il filo. Kelly Violence raffigura una medusa urticante, con i tentacoli che si propagano da margine subombrellare assumendo la forma di sontuosi drappeggi e trine. L’occhio viene posto in relazione con un libro e la scritta STORY GIVER, colui o colei che racconta le storie, grazie alla capacità di visione e al dono poetico. E infine una tazza di porcellana finissima, all’interno del quale si vede una tempesta, come se fosse la visione allucinata di una lady vittoriana in stato di agitazione all’ora del tè.
IL FARMACISTA
Matteo Masini rappresenta spesso motivi che hanno a che fare con la natura, in cui spiccano animali – come i due serpenti arrotolati del bastone caduceo con cui Ermes chiama a sé le anime dei morti – ma soprattutto motivi vegetali. Un dittico celebra la perfezione geometrica della natura, in cui una pigna a frattale è emblema del bosco e una conchiglia spiraliforme a sezione aurea è emblema dell’Eden. L’albero compare come simbolo della totalità, assieme a creature femminili ibride, che si trasformano in piante come la Dafne del mito. Un altro pezzo notevole di Masini è la radice di mandragola coronata dalla scritta Omnia Venenum, l’inizio di una frase di Paracelso, Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit. “Ogni cosa è veleno, e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa sì che il veleno non faccia effetto.” La mandragola è un potente anestetico in grado di lenire perfino il dolore di un’amputazione, tanto che in epoca romana a volte veniva somministrata ai condannati alla crocifissione. Se la dose era abbastanza elevata induceva una sorta di catalessi, che poteva permettere di scampare alla pena capitale: i condannati venivano staccati dal palo del supplizio in quanto ritenuti già morti, e potevano in questo modo salvarsi. La mandragola, a seconda della dose, può essere medicamentosa, allucinogena per il suo contenuto di scopolamina ed atropina, o anche mortale. Simbolo delle arti occulte, come indica la scritta solve et coagula, “scioglie ed unisce”, la raccolta della mandragola aveva una ritualità particolare che abbiamo già indagato alla fine di questo pezzo.In un lavoro molto articolato Matteo Masini rappresenta quattro elementi. Il primo è un teschio con la ferula pontificalis, simbolo del potere supremo del papa nella gerarchia ecclesiastica cattolica, ma anche del paganissimo Tempio della Gioventù Psichica di Genesis P-Orridge. Sotto ad esso c’è un pugnale malese kris con lama ondulata e tre serpenti vivi che si intrecciano nell’impugnatura, mostrando in questo modo la tradizionale consacrazione dell’arma alla divinità serpente Naga. A destra compare un simbolo di potestà, la mano: può essere la mano destra della magia bianca e anche la mano alchemica della trasmutazione, dell’apoteosi, della trasformazione della materia vile in oro. Nella parte sottostante si vede un candeliere a tre bracci, posto in maniera speculare rispetto al pugnale con tre teste di serpente, davanti al quale si incrociano una chiave (il cui simbolismo vedremo meglio nella seconda parte dell’articolo) e una penna. La mano, simbolo dell’azione differenziatrice, si collega con il simbolismo analogo delle frecce come indica anche il nome di Chirone, il Sagittario del mito, che deriva dal greco cheir, mano. Le due parti del dittico, distribuite sulle due gambe del committente, rappresentano due tipologie di virtù, le virtù marziali e quelle conoscitive.
IL TESSITORE
Daniel Meyer utilizza molto le strutture della geometria sacra con uno stile barocco e ricco di particolari. Rappresenta molti motivi figurativi ricorrenti fra gli artisti del Gothic Blackwork, prediligendo la catalogazione degli animali, ad esempio la libellula, simbolo di bellezza ed eleganza. La libellula è utilizzata spesso nei gioielli di Lalique, per la sua capacità di riflettere meravigliosamente la luce, ma anche negli emblemi marziali giapponesi, per la velocità fulminea nel cambiare la direzione del proprio volo. Il pipistrello, per la sua stessa natura di mammifero volante, è un animale dalla simbologia ambigua. In Oriente rappresenta la longevità, la ricchezza e la buona morte. Si dice sia stato fonte di ispirazione per le posizioni yogiche a testa in giù, nonché per le pratiche della fortificazione del cervello dei taoisti. In Occidente invece il pipistrello viene spesso associato all’iconografia sabbatica, diabolica e vampiresca. Nell’antichità si riteneva che le anime del Tartaro squittissero e si muovessero allo stesso modo dei chirotteri. In molta parte del Sudamerica il pipistrello ha significati ctoni, connessi con la letteratura apocalittica e l’Aldilà. Ad esempio, nel Popol Vuh maya, la Casa del Pipistrello è posta sull’itinerario dell’anima del defunto, mentre cerca di raggiungere il Regno della Morte. Il pipistrello è anche emblema di diversità, rappresenta colui che dorme di giorno, vive di notte e fa tutto al rovescio rispetto a come lo fanno gli altri. Secondo Victor Hugo, rappresenta l’ateismo. Daniel Meyer dedica al pipistrello un lavoro di grande formato, a testa in giù come l’Appeso o lo yogi in Sirsasana, e decorato con ossa che richiamano la sua simbologia sepolcrale. Un altro simbolo inedito utilizzato da Meyer è la conocchia, uno strumento che assieme al fuso serve a filare. Simbolo lunare, la conocchia è collegata ai numi titolari del destino umano, le Moire, le Parche o le Norne. Tutti i nomi delle Norne, Urd, Verdandi e Skuld, sono varianti di un termine che significa divenire. Il filo filato dalla Moira Cloto si estende e si avvolge su se stesso proprio come fa il tempo. La conocchia ha movimento rotatorio, quindi si lega alla simbologia della ruota e del tempo ciclico. L’attività del filare richiama anche la cura della propria prole e della famiglia, la tessitura del nido, la creazione della materia prima con cui vengono tessuti canti e poemi. Una particolarità stilistica di Daniel Meyer è l’utilizzo di linee spezzate nere e fitte che formano delle scie intorno al perimetro dei suoi soggetti.
IL VECCHIO MARINAIO
Un artista che vogliamo menzionare per la sua grande influenza su tutti i tatuatori più giovani, nazionali ed internazionali, nonostante il suo stile vada oltre il Gothic Blackwork, è Pietro Sedda. Sedda è un maestro sia del colore che del Blackwork, ma quando si cimenta col nero, l’immaginario a cui fa riferimento non è di matrice medievale, non è legato all’arte precristiana o moderna. Si colloca piuttosto in un orizzonte mentale legato all’epoca vittoriana del colonialismo e delle grandi traversate marittime, alla contemporaneità, agli anni Venti e Trenta, al cinema noir e alla storia del tatuaggio, che prospera e si diffonde proprio nell’ambiente dei marinai. Sedda rappresenta marinai il cui volto viene cancellato dalla loro fantasia d’amore, che annulla l’identità e proietta il soggetto in una dimensione fantastica, in cui l’amata è sempre presente e vicina. Sintomo di nevrosi, perdita di identità e anticamera della follia, un altro espediente usato da Sedda è la distorsione, una distorsione quasi acquatica praticata sui volti, come se i volti fossero visti riflessi sopra uno specchio d’acqua agitato.
I volti di Sedda smettono di essere maschere di carne e diventano rebus rivelatori dell’interiorità, come il dandy baffuto che svela i suoi pensieri eretici tramite un paio di piedi che escono dalla sua testa, come quelli dei dannati nel Sesto Cerchio dell’Inferno. Se in linea di massima gli artisti del Gothic Blackwork si possono collocare idealmente sulla terraferma, che sia foresta vergine o mondo antropizzato, la collocazione ideale di Pietro Sedda è il mare.
Fine prima parte _Nella seconda parte dell’articolo passeremo in rassegna i motivi figurativi più ricorrenti del Gothic Blackwork _ Stay Tuned!
Bibliografia
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Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia, 2008.
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Jean Chevalier, Alain Geerbrant, Dizionario dei Simboli. Miti, Sogni, Costumi, Gesti, Forme, Figure, Colori, Numeri, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008.
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AA.VV. Forever. Il Nuovo Tatuaggio. Rizzoli, 2014.