Nella storia dell’immagine femminile italiana, Monica Vitti rappresenta il primo caso dello scomodo cortocircuito fra corpo e cervello. Alta, bionda, elegante e cerebrale, la sua è una bellezza introversa e narcisista, da guardare da lontano. Non si può toccarla, non si può parlarle. Almeno all’inizio, quando è la musa metafisica di Antonioni, il maestro di quell’incomunicabilità che nasce nelle città del boom economico. I film di Antonioni sono dilatati e formalmente perfetti, e gli esseri umani vi vengono osservati senza partecipazione, come se fossero degli insetti su un fondale articolato. Quando debutta con lui, diventando la sua compagna, Monica Vitti ha diciannove anni. Dopo questa stagione dei silenzi, la Vitti mostra il rovescio della medaglia, diventando l’unica mattatrice della commedia all’italiana, a pari merito con personaggi del calibro di Sordi, Tognazzi, Gassman e Manfredi. “Scoprire di far ridere è come scoprire di essere la figlia del re.”, ha commentato in seguito. Viso ovale, occhi lussureggianti, voce leggermente roca, bravura poliedrica e versatilità totale, fanno di Monica Vitti un soggetto imprescindibile per il progetto di Leo Bellei. Con una tecnica che sovrappone stucco, vecchi quotidiani ed immagini stampate, Bellei indaga i mutamenti dell’icona femminile nell’epoca delle comunicazioni di massa, sondando il territorio sacro delle dive. Anna Mae Wong, Louise Brooks, Peggy Guggenheim, Edie Sedgwick, Silvana Mangano, Anais Nin, Marianne Faithfull: l’artista ci mostra un ritratto a 360 gradi della donna degli ultimi cento anni, rivelando come il processo della fama sia reversibile, e quanto siano prossime dimenticanza e memoria.
Testo critico scritto per il progetto “Incomunicabile” di Leo Bellei, inaugurazione 23 agosto 2010 presso Bottega Yooop