Figura immediatamente riconoscibile, con la testa squadrata e lo sguardo pesto e triste, Edgar Allan Poe ha rivoluzionato la letteratura inventando generi nuovi, dal poliziesco, all’horror, al thriller psicologico. Maestro insuperabile del gotico, la sua materia prima erano le ombre, il sopore, gli incubi, le ossessioni. Edgar Allan Poe nasce da una coppia di attori, e fin da piccolo è affetto da passioni estetiche e squilibri nervosi, che lo portarono a scrivere le prime poesie a dodici anni. Adolescente, si innamora della madre di un suo amico, e quando ella muore, Edgar visita ossessivamente la sua tomba tutte le notti, con qualunque condizione climatica. Si fa espellere dall’ accademia militare di West Point, si mantiene facendo il giornalista, sprofonda nella depressione, diventa morfinomane. Poi si innamora di Virginia Clemm, sua cugina, che non appena compie tredici anni diventa sua moglie e ben presto muore di tisi. Poe era ossessionato dalla morte, e la sua morte personale rimane avvolta dal mistero. Edgar incontra il suo corvo psicopompo dopo essere stato trovato mentre vagava per le strade in preda alle allucinazioni. C’è chi parla di delirium tremens, chi di sifilide, e chi addirittura di idrofobia.
Charles Baudelaire, contemporaneo di Edgar, nonché suo grande estimatore e primo traduttore in francese, percorre le stesse vie ritorte, ma con più rabbia e furore. Rifiutando la società perbenista, Baudelaire si arrocca nei paradisi artificiali, preferendo gli inferni delle viscere della città piuttosto che il tranquillo orrore borghese. Canta le prostitute, il male di vivere, le fugaci consolazioni psicotrope, il disgusto, la carne, i demoni, i vampiri, i reietti. Va in India, si ammala di sifilide e gonorrea, spende tutto il patrimonio paterno per circondarsi di opere d’arte e per frequentare prostitute, fra cui la sweet-sixteen Sarah, e l’haitiana Venere Nera Jeanne Duvall, che verrà ritratta anche da Manet. Mentre I Fiori del Male mietono successi, Baudelaire tenta il suicidio. Fa parte del Club des Haschischins, un gruppo di letterati dediti alle sperimentazioni con la droga, viene processato per oscenità, combatte sulle barricate parigine nel 1848, ed ascolta la musica più rumorosa dell’epoca, Richard Wagner. Se Edgar Allan Poe è gotico, Baudelaire è punk. Anzi proto-punk, perché il primo vero punk della letteratura sarà Arthur Rimbaud.
Per il punk definitivo bisognerà aspettare William Burroughs. Anzi, qui siamo oltre, decisamente oltre al punk. William Burroughs è post-industrial, e non lo diciamo noi, ma Genesis P. Orridge, che di industrial se ne intende parecchio. Deliri distopici, mind-fuckin, torture, allucinazioni, scritture esplose mediante cui Burroughs raffigura la sua personale collezione di inferni: l’Algebra del Bisogno, la Malattia causata dalle droghe, i sensi di colpa per la moglie uccisa per sbaglio, il rifiuto dei genitori, l’odio da parte dei propri simili, che a Tangeri lo evitavano così sistematicamente da averlo soprannominato l’Uomo Invisibile. Studi ad Harvard, Phd in antropologia, attitudine costante alla violenza, Burroughs ha sempre odiato gli apparati di controllo, i progressisti e gli sbirri. Durante il suo grand tour in Europa dopo la laurea, nel 1936, vide i nazisti sfilare per le vie di Vienna. Al ritorno in America si tagliò via deliberatamente la falange di un dito, ottenendo una vacanza in clinica, una diagnosi di schizofrenia, e una mano mutilata che avrebbe nascosto ai fotografi per tutta la vita. Nonostante la sua poderosa scimmia, nei bassifondi William veniva sempre scambiato per un poliziotto in borghese, a causa dei suoi raffinati completi da uomo e alle camicie candide ed inamidate. Perché Bill era di buona famiglia. Una famiglia che non lo amò mai, soprattutto per la sua disdicevole omosessualità. Negli anni Quaranta, dovendo già mantenere la sua tossicodipendenza da morfina ed eroina, Burroughs lavora come barista, operaio in fabbrica, investigatore privato, disinfestatore di scarafaggi, pusher. Poi ha una lunga storia con Allen Ginsberg, urlante profeta della Beat Generation. I due si conoscono all’interno di un ospedale psichiatrico. Le tendenze sessuali di Burroughs non gli impediscono di sposarsi un paio di volte, la prima volta per far ottenere il visto americano ad una ragazza ebrea conosciuta durante il viaggio nell’Europa nazista degli anni Trenta, la seconda volta invece per complicità. A metà degli anni Quaranta, William Burroughs vive quindi con la seconda moglie Joan Vollmer, Jack Kerouac e vari satelliti, in una sorta di proto-comune hippie, in cui le discussioni dotte sull’arte e la letteratura si intrecciano a tuffi carpiati nell’Interzona degli stupefacenti. Joan Vollmer ama molto le anfetamine e la benzedrina, complementari rispetto alle droghe lente predilette da William. Poi un giorno, in Messico, mentre giocano al Guglielmo Tell con una pistola vera, William la centra in testa. Dopo il mortale incidente, Burroughs si dedica a viaggi febbrili. Sperimenta lo Yagè, una delle piante allucinogene più potenti che esistano in natura, che gli sciamani del Perù usano per entrare in comunicazione con i morti. A Tangeri, quando è completamente allo sbando, viene raggiunto da Kerouac e Ginsberg, che lo aiutano a raccogliere miriadi di frammenti scritti, e a riassemblarli nel capolavoro che darà a Burroughs la fama, Il Pasto Nudo. Una fama che si trasformerà in vero e proprio culto, in tutti gli ambienti della controcultura, e da parte dei suoi più esimi esponenti, da David Bowie a Patti Smith a Kurt Cobain. Nel 1979, a Bruxelles, durante un happening all’ex zuccherificio Plan K, Bill scaccia in malo modo un imbarazzato Ian Curtis, suo grande fan, che gli aveva chiesto uno dei suoi libri autografati in regalo. William Burroughs è stato definito il primo vero junkie della storia delle droghe, codificando l’inedita – almeno fino a quel momento – figura sociale del tossico. Burroughs sceglie la tossicodipendenza come materiale poetico primario perché la tossicodipendenza è un’esperienza estrema. E come ha detto Bataille, dopo il collasso delle strutture unificanti del sistema, l’unica narrazione sensata è quella che riguarda il superamento del limite.
William Gibson fa parte della generazione dei baby-boomers nati durante gli anni dell’immediato dopoguerra. A sei anni, dopo la morte del padre, è costretto ad andare in un paesino del Virginia, dove prova una sensazione di esilio dalla modernità che gli farà crescere dentro la necessità genetica di occuparsi di fantascienza. A quindici anni Gibson inizia a frequentare una scuola privata in Arizona. Lettore compulsivo, si imbatte in Burroughs, e sente nascere dentro di sé un’ossessione indefinita. Insomma, William entra nella grande TAZ della controcultura. A diciott’anni, dopo la morte della madre, Gibson si sente come l’unico sopravvissuto di un continente sommerso. Molla la scuola e si unisce alla Grande Crociata dei Bambini, ovvero alle masse di hippy bohemienne della Summer of Love. Poi si riprende, si sposa, si laurea, fa un viaggio nei paesi europei fascisti, diventa padre. Nel frattempo è arrivato il ’77 e strane nubi ondulatorie giungono da Londra e New York. Miscelando i fumi esplosivi del punk con il suo decennale interesse per la fantascienza, William Gibson sintetizza una potente ed inedita molecola culturale. Il cyberpunk unisce gli scenari urbani di Liquid Sky alle atmosfere post-nucleari di Mad-Max, i paludamenti punk all’alta moda, l’informatica alle neuroscienze, il post-fordismo globalizzato alle strategie militari, il vudù alla rete, il silicio alla carne, per delineare una nuova concezione di ciò che è reale e ciò che non lo è, e per trovare nuove strategie di ribellione. Con Neuromante William Gibson vince i massimi riconoscimenti per la science-fiction, i premi Nebula, Hugo, e Philip K. Dick. Nasce un nuovo archetipo letterario. Il resto, tra cui Blade Runner, Ranxerox, Akira, Tank Girl e Matrix, è storia.
Testo critico e curatela per la mostra STARDUST: Stelle, Santi e Cose Preziose, inaugurazione 1 dicembre 2012 presso Cayce’s Lab, pubblicato sulla fanzine cartacea autoprodotta Unknown Pleasures, numero zero, grafiche di Francesca De Paolis.