Molti anni fa, piccolissimi, con addosso una giacchetta di peluche che chiamavamo Mish (Orsetto), lasciammo le terre dei boschi ed emigrammo.
Go West, dicevano. Na Zachód, per essere precisi.
La nostra istruzione si compì in scuole occidentali. Quando andavamo alle medie, ci capitava spesso di accapigliarci con i bambini leghisti, che ci insultavano per la nostra slavitudine. Era una gran scocciatura, ma faceva parte del nostro addestramento militare.
Noi praticavamo l’imperturbabilità slava, non capendo cotanto odio per una cosa così figa. Perché lo sapevamo già allora che era una cosa figa. Alla faccia di quei piccoli debil leghisti, ora la slavitudine è diventata un must. Uno stile, una tendenza sfaccettata a cui sono dedicati blog, pagine FB e canali Youtube che non possiamo definire in altro modo che blyatiful.
Noi ormai, nella nostra doppia assenza, non sappiamo più dire se siamo ancora True Slavs o se ci siamo trasformati in Western Spies. Oppure se siamo True Slavs che fanno finta di essere Western Spies per meglio raggirare il Nemico Occidentale, e spianare il terreno per la grande steppa del futuro Tatarland, in cui scorrazzeremo su destrieri schiumanti armati di archi e katjusche, evocando divinità policefale in festini sciamanici a base di vodka e fiamme alte, dorate e guizzanti.Se siamo davvero spie sovietiche, allora siamo spie d’élite, perché nulla sfugge al nostro occhio da Bette Davis. Ma non lo sappiamo, davvero, abbiamo bevuto troppo Alkohol nella nostra vita per ricordarcelo. La slavitudine però ce l’abbiamo nel sangue, e quindi ora vi andremo ad illustrare, in ordine sparso, le sue varie componenti. Potete prenderla come meglio credete: un atto diplomatico di glasnost, oppure una dichiarazione di guerra.
GLOSSARIO MINIMO PANSLAVO MA
SOPRATTUTTO RUSSO
Il grande linguista Boris, che conosceremo meglio alla fine della seconda parte dell’articolo, sostiene che, quando si impara una lingua, sapere le parolacce vuole dire essere a metà del lavoro. Questo però non vale per il russo, per il quale sapere bene tutte le parolacce vuole dire essere a posto e non avere più nulla da imparare. Pizdyetz indica l’accoppiamento, corrisponde a “fuck”, e lo dici quando sei molto alterato. Quindi sempre. Debil denota il ritardato, l’idiota, il coglione, quello che quel puzzone di Deleuze definiva “imbecille”. Zajebisty vuol dire “fucking great”. Blyat è una parola molto importante: il suo significato letterale è “puttana”, e si usa dappertutto e in tutti i modi possibili. È un accento di enfasi, ma esprime anche riprovazione, scandalo, malinconia, ammirazione, quindi corrisponde in tutto e per tutto all’uso che si fa di fuck in inglese, di kurwa in polacco (con cui condivide anche il significato letterale) e del diocane emiliano. Suka blyat è una tautologia di potenza, in cui suka (scritto spesso cyka) vuol dire “cagna”. Quindi “cagna puttana”. Idi nahuj è una frase che in Occidente abbiamo sentito dire spesso alle regine della strada, e vuol dire letteralmente “vai sul cazzo”, ovvero fottiti. Yob tvoyu mat è l’elegante invito a fottere la propria madre, corrisponde al motherfucker inglese e a niente in area mediterranea, perché qui la mamma è più sacra di Dio. Quindi in Italia noi possiamo bestemmiare Dio, cosa che gli slavi linguisticamente non possono proprio fare. In compenso fanno molte altre cose quasi altrettanto belle, che ora andremo a vedere.
IL DEVASTO SLAVO
Rassegnatevi. Per quanto impegno ci possiate mettere, per quanto la vostra testa sia adamantina e alto sia il numero dei giorni trascorsi e dei microgrammi assunti, è inutile, il vostro devasto non sarà mai come il devasto slavo. Perché il devasto slavo è radicale. Nel senso in cui noi usiamo sempre questa parola: per indicare qualcosa che parte dalle radici dell’essere.
Nelle terre slave la fonte della vita è la vodka, o qualunque altro distillato che sia passato dalla serpentina alchemica, diventando in questo modo Aqua Vitae.
Altro che Dio, il vero motore immobile è l’Alkohol. In virtù di questo dogma, spermatozoi ubriachi prendono d’assalto ovuli ebbri, ed ecco che, a un passo dal mutuo coma etilico, viene concepito un infante.
L’infante cresce bello, tittando Latte-più dal petto roseo di stupende madri slave ventenni in hangover.Cresce anche buono, perché i suoi capricci vengono tutti sedati sul nascere da ciucci imbevuti di Alkohol. A cinque anni è già bello pizdyetz e si fa il primo cicchetto alcolico e la prima sigaretta di nascosto. Fra gli otto e i dieci c’è la prima sbronza seria. A dodici si sceglie in modo irrevocabile fra Gesù e la perdizione [che in realtà coincidono perché la perdizione è un po’ un’Imitatio Christi].
Ora la gioventù slava avrà sicuramente costumi più posh, corrotti e infrociti dal Nemico Occidentale, con localini, broda frizzante di importazione e bicchieri gay da Martini. Ma negli anni Novanta non era così. A quei tempi ti ritrovavi a far parte di una coorte di giovanissimi individui che, intorno alle sei di pomeriggio del venerdì, iniziavano ad aggirarsi furtivamente per il paese con due buste in mano. Due buste, sì, di plastica robusta. In una c’erano aranciate, succhi di mela, mirtillo o ciliegia. Nell’altra c’era l’artiglieria pesante, un numero compreso fra i due e i sei pezzi circa da mezzolitro cadauno di vodka.Il losco ragazzino con le due buste raggiungeva la sua ghenga di coetanei, in appartamenti privi di adulti, casette nell’orto, garage o cantine. Si cominciava. Si facevano dei giri come con le canne, un bicchierino piccolo da 15 ml di vodka, e dietro subito un bicchiere grande da 300 ml, con dentro la cosa dolce non alcolica, per mandare giù quante più botte di vodka possibili. Mescere alcolici ed analcolici era proibito, nessuno si faceva dei cocktail da fighetta, manco le bambine di dieci anni.
Alle nove di sera si andava tutti in un punto di raccolta, che doveva essere quanto più squallido possibile, con tubi esposti laccati di grigio o beige e pavimenti in linoleum bruciato. Un tempo era stato la Casa della Cultura Comunista, e ora era la Discoteca. Non si pagava un bel niente, né un biglietto d’ingresso né i drink, perché ci si portava dietro spudoratamente le proprie buste. Si pagavano giusto le patatine, i semechki e i grissini salati. Oppure le sigarette, che si potevano comprare sfuse, tipo tre o quattro, o anche una. Compravi dell’Alkohol se e quando finivi le tue buste e quelle dei tuoi amici. Al massimo compravi una birra per riprenderti, oppure, se volevi far colpo su un essere di sesso femminile, del vino abominevole che veniva chiamato zolfo. A posteriori comprendiamo come questa nomenclatura, zolfo, fosse nata per farci capire meglio i riti di corteggiamento per cui il vino era concepito: qualunque essere di sesso femminile possedeva una oscura fonte di potere, e nonostante la faccia d’angelo di porcellana era sempre e comunque più cattivo di te.
La playlist della Discoteca era all’insegna dell’eclettismo: disco tamarra autoctnona, pezzoni di MTV tipo gli Ace of Bace oppure i lenti degli Aerosmith da ballare a coppie, rigidi, strusciandosi timidamente e annusandosi. Di tanto in tanto gli Exploited per i due punk del paese, che tanto stavano lì per prenderle e quindi era giusto farli felici, prima di pestarli. Qua e là i Metallica, gli Slayer e i Behemoth per i cinque o sei metallari, evidentemente più tollerati. Perché uno slavo, dopo tutti quei piani quinquennali, un po’ di metallo ce l’ha nel sangue.
Intorno alle undici di sera le cose cominciavano a diventare confuse. Fra le undici e mezza e mezzanotte scoppiava il primo tafferuglio amichevole.Intorno all’una si menavano le tipe, con tecniche mozzafiato, tipo che si toglievano i tacchi e se li davano in faccia, quasi a cercare seriamente di accecarsi a vicenda. Questo perché Asha aveva guardato Mirek, e Zosha non poteva permetterlo, dato che con Mirek ci aveva limonato due settimane prima e forse gli aveva anche fatto qualcos’altro. Ma non se lo ricordava bene, e nemmeno Mirek se lo ricordava. Ah no, non se lo ricordava? Quindi era chiaro, il colpevole di ogni cosa era Mirek. Così, nell’una e mezza scattavano le guerriglie bestiali fra i sessi, assieme a quelle virili, ma non più amichevoli. Era una reazione a catena. Ci si disperdeva fra i boschi, i campi, gli orti circostanti alla Discoteca, per cacce all’uomo, opere caritatevoli di sgambamento di soggetti zombificati, e vari tipi di attività para-sessuali. I soggetti più lucidi, non appena venivano sfiorati, esplodevano wham-bam-thank-you-mam, ma c’erano anche molti amplessi intercrurali, perché non si trovava il buco, oppure perché, per un qualche inspiegabile motivo, non si trovava la baldanza necessaria per penetrarlo. Così l’essere di sesso femminile andava avanti a pugnalarti per lungo tempo, insultandoti come un cane rognoso, e tu ad un certo punto fiutavi il pericolo e rispondevi sdegnato. Optavi per la ritirata strategica, prima che Zosha si tornasse a togliere i tacchi e li usasse per renderti puro per sempre. Al ritorno dalle fratte la Discoteca era chiusa, e il senso di smarrimento e profonda ingiustizia di solito faceva scattare un’altra rissa. Ormai era una specie di pogo sognante, in cui ci si spintonava allo scopo di scroccarsi il baricentro a vicenda. C’erano altri momenti centrifughi di dispersione, e fra le tre e le quattro ci si ritrovava a contare i caduti in appartamenti privi di adulti, casette nell’orto, garage o cantine. Si continuava a bere, perché ovviamente non si era mai smesso, fino a quando la troppa luce non annichiliva ogni cosa.
Al risveglio ci si curava l’hangover con la birra, si svoltava del cibo, dell’erba, del caffè alla turca, della pornografia, e si perdurava fino al tardo pomeriggio di sabato sera. A questo punto tutto si ripeteva uguale, ma un po’ più hardcore, perché all’artiglieria pesante si univa la farina, vale a dire un tipo di anfetamina capace di azzerare qualunque quantitativo di Alkohol nel sangue. Non bisognava mai chiederne l’ingrediente segreto, altrimenti ti rispondevano: “Cos’è, non lo sai? Sono i denti tritati del fottuto Perun.” Ad un certo punto comparivano magicamente i funghi. Fra le sette e le otto di sera i più intelligenti prendevano la cagna e andavano a svaligiare qualche farmacia chiusa, per avere le benzodiazepine necessarie per il day after. Intorno alle nove si era più o meno tutti quanti in berserkgangr.
Fra le undici e mezzanotte si cominciavano a vedere delle strobo blu e si cominciava a correre. I più ginnici giocavano a guardie e ladri nei boschi, i più eloquenti recuperavano l’uso della favella per parlare con il personale paramedico. Alle quattro di mattina, tumefatti, si saccheggiava la cantina di qualcuno e ci si salvava dal collasso ingozzandosi di kompot pieno di zuccheri e vitamine.
Al ritorno dal regno dei morti, ci si trascinava in località bucoliche, tipo il bosco o il lungofiume, fissando lobotomizzati le fiamme del falò, ruminando salsicce carbonizzate con maionese e sorseggiando birra con fare signorile. Ma se a questo punto scoppiava un’altra rissa, nel giorno del Signore, lo scenario diventava serio. Le risse domenicali di solito diventavano itineranti, potevano arrivare a inglobare un centinaio di individui, comportare incendi di mezzi e uso di armi bianche. Poteva anche scapparci il morto. Ma tanto a nessuno importava, perché nessuno si ricordava chi era stato. Il morto era come morto da solo, cadendo sul suo coltello perché era un po’ ubriaco, e in ogni caso si era tutti minorenni. Oppure si avevano delle malefiche sorelle minorenni, che andavano a parlare con sbirri, avvocati o giudici.
Insomma, questo era il copione che si ripeteva tutti i fine settimana. Nel corso degli anni, sempre. Con mille piccole varianti e mirabolanti avventure: atti di vandalismo, furti negli orti, arrampicate sui cornicioni fino al quinto piano per rubare la pianta d’erba del tuo amico, vomitate di sangue, ossa rotte, episodi di dissenteria da assedio medievale, violenti rituali di umiliazione da parte del Sinedrio delle Babushke che ti aveva beccato collassato tra la vita e la morte sulla loro sacra panchina, incendi dolosi del tappeto, svenimenti di faccia dentro al falò seguiti da tonsure coatte, profanazioni di cimiteri, tentativi di rapina al chiosco degli alcolici armati di accette, fughe disperatissime perché erano le cinque di notte e c’era gente che giurava di aver incontrato tuo nonno che ti stava cercando per riportarti a casa.
Poi, intorno ai diciannove/vent’anni, i più imparavano a centrare il buco e facevano un nano, ovvero diventavano padri. In questo modo il cerchio della vita ha sempre continuato a girare.
IL BLOK
Per i Nemici Occidentali gli status symbol variano, da popolo a popolo. Possono essere i vestiti con le patacche firmate, i cellulari, le automobili. Per i popoli slavi lo status symbol fondamentale è uno solo: la Casa. La società si divide così in vincenti e perdenti. I vincenti si riconoscono perché si sono costruiti con le loro mani la Casa, nel corso degli anni, un pezzo alla volta dalle fondamenta fino alle finiture. Come Borat insegna, i vincenti gareggiano fra di loro in piante ornamentali, madonne di gesso, gazebi, ricami di ferro battuto nelle recinzioni, galletti roteanti, laghetti artificiali con papere e ninfee. Tu metti un nanetto nuovo, e due giorni dopo ce l’ha anche il tuo vicino. Itifallico. Il vicino è il tuo nemico. Quando se ne esce con un gadget nuovo, tu non puoi essere da meno di lui. Così ognuno si edifica il proprio inferno privato, di modo che gli altri glielo invidino, non vedendo quello che ci succede dentro. I perdenti questo problema non ce l’hanno, perché abitano nei BLOKI.
I BLOKI sono casermoni mastodontici, ad alveare, fatiscenti, che formano corti e quartieri. Fra di loro ci sono giochi per bambini su banchi di sabbia escrementizia, piante agonizzanti e strutture di metallo per sbattere i tappeti. Sono oltre qualsiasi concetto di degrado e brutalismo.
I BLOKI hanno varie rampe di scale, vari interni con vari sbocchi, e ad ogni ingresso c’è un limen composto da due terribili panchine che si fronteggiano, su cui siede il Sinedrio delle Babushke. Tu ci devi passare in mezzo ogni volta che entri o esci da casa. Il Sinedrio delle Babushke sa tutto di te e della tua famiglia fino alla quinta generazione. Conosce tutti i tuoi più oscuri peccati, pure quelli che non ti ricordi di avere commesso. Ma fa finta di niente, ti saluta gentilmente lo stesso, facendo sfavillare occhi e denti d’acciaio. Tu però il Sinedrio delle Babushke non lo puoi semplicemente salutare. Tu, di fronte a questo conglomerato di Moire, ti devi inchinare. Ma devi essere veloce. Se ti fermano e iniziano, in maniera amabile, a conversare con te, devi stare molto attento. Se ti lascerai sfuggire qualcosa di compromettente, un dettaglio di troppo, una microespressione che avvalora qualche loro teoria maligna, vedrai brillare nei loro occhi un lampo di piacere sadico, che manco nei privé dei locali leather più marci. La calunnia è un venticello che soffia in tutto il mondo, ma niente può reggere il confronto con la maldicenza slava. Forse è un’eredità dell’NKVD, una nostalgia dei bei tempi in cui con un’unica parola, vera o falsa che fosse, potevi spedire il tuo Nemico a fare una crociera di riabilitazione. Tu ti sei costruito lo steccato più alto del mio, e io ti spedisco idi nahuj al gulag. E tanti saluti a te, alla famiglia e al tuo bel steccato.
LA BABUSHKA
Non importa quanto tu ci dia dentro con il Devasto Slavo, ci sarà sempre qualcuno nella tua famiglia più peso di te. E senza toccare mai una goccia d’alcol, né un filo di tabacco. Questa persona è la tua Babushka, ovvero tua nonna.
La Babushka indossa calze velate marroni/beige, una veste a piccoli motivi floreali coperta da un grembiule e un golf, sul cui risvolto sono sempre appuntate delle spille balia. Le spille balia, sì, da vent’anni prima che qualcuno si mettesse in testa di dire punk invece di huligan. La Babuska ha un grosso sedere e gli occhi cerulei, il cui bagliore sovrumano ti fa intuire a volte la topitudine lancinante di cui il soggetto era provvisto circa mezzo secolo fa. In bocca ha denti d’oro e d’argento, più o meno dagli anni Sessanta, quindi è avanti anni luce rispetto ai grillz di chicchessia. Ma la parte più imprescindibile dell’outfit della Babushka è il fazzoletto in testa, annodato sotto il mento. La Babushka ha più foulard di quante scarpe possieda Mariah Carey, e una parte del suo guardaroba è dedicata esclusivamente ad essi: sintetici, di seta, di lana, con o senza frange, ricamati a mano, con vedute paesaggistiche di luoghi turistici occidentali, rose, piume di pavone, pois a là Comme des Garçons. Poi ci sono quelli neri, una ventina di solito, che la Babushka raccomanda tetramente di metterle da morta, per non farla sfigurare dentro la bara davanti a quei zkurwysyny dei vicini.
D’altra parte, la Babushka è sempre collusa con il mondo degli spiriti, incontra regolarmente gli spettri dei suoi trapassati e ha visto il diavolo almeno due volte nella sua vita. Ne sa una più di lui, e non si squassa mai.
Spezza colli ad animali di cortile come se fossero grissini, li eviscera più veloce di Leonarda Cianciulli, li spella e li spiuma, li mette in una bacinella di plastica e li va a vendere al mercato. Così, abusivissima, seduta maestosamente su un muretto, con a fianco i cadaveri sgozzati dentro la bacinella.
All’occorrenza la Babushka può tagliare senza battere ciglio la gola a un bue, un porco, un cavallo, e sicuramente anche a un essere umano. Niente può tangere la sua atarassia. È sopravvissuta da bambina alle orde di unni stupratori della Seconda Guerra Mondiale, ha imparato a maneggiare armi automatiche a dodici anni, ha schivato delazioni e campi di concentramento. È uscita indenne da guerre tribali, inverni stalinisti, carestie, razionamenti, crolli di muri, scioperi, carri armati in piazza, figli fricchettoni drogati e mariti che le rubavano lo Spirytus, l’alcol a 99 gradi con cui doveva strinare i polli spennati, per berselo. Alla Babushka non gliene frega niente di niente, tranne di una cosa. Che tu mangi. Eh sì, devi mangiare. Ti conviene proprio. Pierogi, kotlety, crepes dolci e salate, gulasz, frittelle di patate, zampette di porco in gelatina, insalate di patate con la maionese, pizze alte cinque centimetri, zuppe e kompot, che trovi fresco tutti i giorni in un angolo della sua cucina.
Ma soprattutto la Babushka rappresenta il porto estremo in cui approdare nei giorni in cui l’hangover è definitivo. Fisico, psichico, morale, ontologico, cosmico, apocalittico. L’Imitatio Christi è completa, tu stai alla fase della spugna d’aceto e vuoi solo sbrigarti a morire. Quindi, commosso, vai a salutare la tua Babushka, prima dell’oblio eterno. Lei ti accoglierà elegantemente dicendo: “Come sei pallido! Gesù! Si vede proprio che hai fame.” Nel giro di cinque secondi ti metterà davanti un piatto di zuppa fumante. Non importa se tu perdi ogni residuo di dignità, se ti metti a piangere o ti caghi addosso. La Babushka farà un gesto teatrale di sgomento e dirà: “Ma tu sei malato!” Ti preparerà un bagno, raccomandandoti di starci meno di cinque minuti, facendo dei rumori con l’acqua per farle capire che non sei annegato. Ti darà da indossare le mutande lunghe del nonno e la t-shirt di qualche acciaieria gotica, e ti metterà a letto con tre piumoni. Poi dirà: “Nel nome del padre del figlio e dello spirito santo, che brutto virus!” dandoti un antidolorifico da cavallo, un antiemetico, un antidissenterico usato per il trattamento del colera e delle vitamine. È chiaro per tutti che la Babushka sa perfettamente che tu non hai nessun virus, non sei malato se non di vodkaflu, perché puzzi come una distilleria anche dopo aver fatto il bagno. Ma l’aplomb è la cosa più importante, il segno definitivo della supremazia. Mentre tu ti dibatti in preda agli spasmi involontari sudando sotto i piumoni, la Babushka farà un’ultima apparizione: “Dormi? Stai poco bene? Non riesci a dormire? Nah, tieni. Prendi questa altra piccola medicina.” E così, dopo un quarto d’ora, tu sentirai un benessere assoluto invaderti tutte le membra, dopodichè perderai i sensi e dormirai per trenta ore, al termine delle quali non ci sarà più nessun hangover, nessuna sensazione di “very concentrated and deep pizdyetz in your head”, nulla, nemmeno il ricordo. Perché l’ultima pastiglia della Babushka era uno psicofarmaco potentissimo della famiglia dei neurolettici. Nella sua infinita saggezza slava, la Babushka aveva capito che ne avevi bisogno.
Insomma, questa è la natura favolosa, bianca e sciamanica della Babushka. Quella buona. Perché c’è da dire che ognuno di noi ha in sorte due Babushke. C’è anche la Babushka Cattiva, che siede in qualche Sinedrio, non ha lo shining, non è mai stata bella, né eroica, né saggia, e quindi negli anni è diventata un concentrato ignorante, malizioso, intrigante e perbenista della donna media delle terre slave. L’Altra Babushka è stronza, porta sfiga e non ti vuole bene, perché tu sei un huligan, tutto il paese parla di te, non vai a messa, non ti sei sposato, non hai fatto figli e non le hai ancora costruito la villa su tre piani col portico in stile occidentale che le devi.
Ma non fa niente, perché c’è sempre la Babushka buona, che ti ha passato i suoi geni, il suo sangue e la parte migliore di te. Puoi star certo che, se gliela butti lì, anche a distanza di anni ti regalerà un blister di quelle di medicine che ti avevano fatto passare quel brutto virus che avevi preso quel giorno.
Fine prima parte
La Slavitudine Seconda sarà incentrata sulle subculture. Scopriremo cos’è un gopnik, perché gli slavi hanno il feticcio della tuta dell’Adidas e conosceremo le sette abominevoli cure per l’hangover dello Slav King Boris. _ Stay Tuned!
Per illustrare questo articolo abbiamo saccheggiato le seguenti pagine:
Slav Memes https://www.facebook.com/GameOfSlavs/?fref=ts
Babushka https://www.facebook.com/KompotIsLife/?fref=ts
Slavorum https://www.facebook.com/Slavorum/?fref=ts , che esiste anche nella versione https://www.slavorum.org/
La foto della Babushka Szeptucha che fa le magie col fuoco è di Hanna Musiałowna
Le immagini delle disko dell’Est sono di Andrew Miksys
https://www.vice.com/en_uk/article/mv5bdq/lithuanian-discos-andrew-miksys
Bibliografia
http://www.urbandictionary.com/define.php?term=pizdez
http://www.urbandictionary.com/define.php?term=pizdyets
http://weirdrussia.com/2015/01/04/why-is-adidas-so-popular-among-russians/