Continuiamo l’analisi del Simposio di Platone che abbiamo integrato nella nostra Storia del Diavolo. La tesi di fondo riprende il concetto platonico di Eros come daimon, in senso greco, per indagare come questo sia sovrapponibile all’idea di demonio propria della nostra cultura. L’ideologia cristiana del peccato carnale non c’entra con la nostra tesi. Anzi, la carne aiuta, e consola. La natura pericolosa dell’amore si compone da un insieme totalizzante, di desiderio, trasporto irrazionale, amore platonico, puro e idealizzato, il tutto sconvolto dalla potenza ossessionante del sesso. Nella prima parte dell’articolo abbiamo preso in considerazione le declinazioni dell’Eros che ci hanno colpito finora nel Simposio: una pratica sociale che può sembrare aberrante ma che, a livello di struttura, una volta trasformati i ragazzini in ragazze, corrisponde in tutto e per tutto al nostro stesso modo [triste] di vivere l’amore; un sentimento solitario; una malattia; una forma di dominanza e sottomissione; un esercizio di temperanza per prevalere sull’altro; un desiderio disperato di fusione; un tentativo di curare una ferita ancestrale, provocata dall’odio degli dei; una spinta a conoscere e dimenticare; una mediazione fra i nostri desideri e la realtà; una scala che ci porta verso la perfezione della morte. Ora ne vedremo il culmine.
ALCIBIADE
Fino a questo momento il Simposio si configura come un educato scambio di dotte opinioni. Per quanto sia visibile un crescendo costante di bellezza e rilevanza, finora sembra quasi un gioco, di verità parziali, ideologiche e a tratti noiose. Poi improvvisamente arrivano tre pagine che collocano il trattato ai vertici della letteratura di tutti i tempi. Al simposio irrompe Alcibiade, l’uomo più bello di Atene. È talmente ubriaco che chiede da bere un secchio di vino, ed è stato uno degli allievi di Socrate. Alla sua maschera dionisiaca stupenda e stravolta è affidato il compito di svelare la vera natura dell’amore. Non lo fa tramite la speculazione, ma tramite la rappresentazione viva, con quella che i critici definiscono come “un’incarnazione”.
Non appena lo vede, Socrate si lamenta. Da quando si è innamorato di lui, non gli è più concesso di rivolgere la parola a nessun uomo bello, altrimenti sono botte e insulti. “Se cerca di farmi violenza, venitemi in soccorso, perché del suo furore e della sua maniera di amare io ho una grande paura.”, piagnucola il filosofo.
I due litigano in maniera spudorata, in pubblico, durante il banchetto. Alcibiade sostiene che è Socrate a mentire, che è lui che gli mette le mani addosso non appena loda gli altri, uomini o dei che siano. E Socrate gli risponde: “Sta’ zitto!”
Alcibiade dichiara allora che non farà un elogio di Eros, come gli altri invitati al simposio, ma un elogio di Socrate stesso. La bruttezza del filosofo era famigerata nell’antichità, ed è testimoniata dalla statuaria, che ci restituisce un volto laido, barbuto, con la testa pelata, il naso camuso, la bocca grossa, gli occhi piccoli e infossati. Alcibiade ne è consapevole, infatti lo paragona a un anziano satiro, Sileno, il mentore di Dioniso. Eppure, nonostante tutta questa bruttezza, Alcibiade si è innamorato perdutamente di lui non appena l’ha sentito parlare.
“Quando io lo ascolto, nel sentire le sue parole mi batte il cuore e mi vengono le lacrime agli occhi. (…) Quando ascoltavo Pericle e altri bravi oratori, pensavo che parlassero bene, ma non sentivo qualcosa di simile, né la mia anima veniva messa in tumulto, né si arrabbiava, come se io mi trovassi nelle condizioni di schiavo. Più volte mi sono trovato in una situazione di questo genere, tanto da sembrarmi che non valesse più la pena vivere, comportandomi come mi comporto io. (…) E anche ora so bene che, se volessi prestargli orecchio, non saprei opporgli resistenza, ma proverei le medesime cose. (…) E solamente nei confronti di quest’uomo io ho provato quello che nessuno penserebbe esserci dentro di me, ossia il vergognarsi di fronte a qualcuno. Solo di fronte a lui, in verità, io mi vergogno.”
Alcibiade non riesce mai a contraddire Socrate, non trova argomenti per farlo. Non si tratta solo delle dispute filosofiche o dei precetti etico-politici, ma anche dei litigi, del volersi negare, del cedere sempre, dei discorsi più confusi ed ebbri.
“Perciò mi sottraggo a lui e lo rifuggo. E quando lo rivedo, mi vergogno per quelle cose che mi aveva fatto ammettere. E più volte mi viene voglia di non vederlo più fra i vivi.”
L’Eros si configura anche come odio mortale, e come vergogna, parola che verrà usata più volte nel discorso di Alcibiade. L’idea della vergogna viene accostata all’amore e all’erotismo in un contesto completamente avulso dalla morale cristiana. Socrate suscita sentimenti contraddittori, che inducono alla confusione. Alcibiade dice di non sapere proprio come regolarsi con quest’uomo.
“Sappiate che, se uno è bello, a lui non interessa proprio niente, e anzi lo disprezza, al punto che nessuno ci crederebbe; e così non gli importa nulla se uno è ricco, o se è in possesso di quegli onori che secondo la gente rendono felici. Egli pensa invece che tutti questi beni non abbiano nessun valore, e che noi non siamo nulla, ve lo dico io! E trascorre tutta la sua vita fra la gente con la sua ironia e facendosene gioco.”
Il filosofo quindi, sotto la sua maschera affabile e dimessa, disprezza tutti. Ma Alcibiade lo vede lo stesso come un prodigio, per la sua conoscenza, il suo modo di parlare, il suo mondo interiore.
“Quando invece fa sul serio e si apre, non so se qualcuno abbia mai visto le immagini che ha dentro. Ma io una volta le ho viste, e mi sono sembrate essere divine e d’oro e tutte belle e mirabili, tanto che bisognava far subito ciò che ordinava. Allora, credendo che prendesse sul serio il fiore della mia giovinezza, pensai che questo fosse un tesoro e una fortuna straordinari, se con il concedere a Socrate i miei favori, potevo in cambio ascoltare tutto ciò che costui sapeva: infatti io avevo una considerazione davvero straordinaria del fiore della mia giovinezza.”
Socrate, da questo unico momento in cui si apre e si mostra davvero ad Alcibiade, capisce subito che il ragazzo si è innamorato di lui. Il vecchio filosofo inizia una strategia di seduzione letale, rompendo tutte le regole e deludendo ogni aspettativa. Lo scopo è la capitolazione dell’altro, ma Alcibiade non lo sa ancora, perché è troppo giovane.
“Pensando dunque questo, mentre prima di allora non ero solito star da solo con lui senza un accompagnatore, incominciai a mandar via il mio accompagnatore e a rimanere con lui da solo. (…) Pensavo che avrebbe iniziato a fare con me quei discorsi che un amante fa al suo amato, quando se ne stanno appartati, e ne godevo. Invece, non capitava proprio niente di questo, ma come era solito, dopo aver discorso e passato la giornata con me, mi lasciava e se andava a casa.”
L’amore nasce sempre con la confusione, dalla dialettica fra la speranza di essere corrisposti e il sospetto di non essere ricambiati.
“Dopo questo, io lo invitai allora a fare ginnastica insieme, nella convinzione di poter concludere qualcosa, trovandoci insieme in quella situazione. E lui, allora, faceva ginnastica con me e spesso anche la lotta, senza che nessuno fosse presente. E che cosa vi devo dire? Non ne ricavavo nulla.”
Tutti gli atleti che si allenavano nelle palestre dei ginnasi erano nudi, e prima di attendere agli esercizi si spalmavano il corpo di olio. Gli ambienti delle palestre dell’Antica Grecia favorivano la promiscuità, tanto che Solone promulgò una serie di leggi per regolamentare questo aspetto. Anche in questo contesto, Socrate non cede. Continua invece a farsi desiderare da Alcibiade.
“E poiché in questa maniera non ottenevo alcun risultato, mi sembrò che a quest’uomo mi dovessi imporre con la forza, e che non bisognava che lasciassi andare la cosa, dal momento che mi ero impegnato, ma che bisognava venire in chiaro della faccenda. Lo invitai allora a cenare con me, proprio come un amante che tende il laccio all’amato. Ma neppure in questo mi diede retta subito; dopo un po’ di tempo si lasciò convincere. Però, la prima volta che venne, non appena finito di cenare volle andare via. E io in quel momento, avendo ancora vergogna, lo lasciai andare.”
Alcibiade si vergogna perché sta andando contro tutti i crismi sociali del suo tempo, perché vuole essere amato e, nonostante la sua bellezza, la sua ricchezza e il potere della sua famiglia, teme in cuor suo di non esserne degno. Il desiderio erotico è un sentimento che induce vergogna, sia che si cerchi di nasconderlo (sempre inutilmente), sia che esso venga dichiarato. È difficile capirne il motivo. Forse perché, come insegna l’iconografia di Eros armato di arco e frecce, l’amore provoca una ferita. Tutti gli animali cercano di dissimulare le loro ferite, perché sono indice di debolezza, e la debolezza attira i predatori.
“(…) Mi sento come l’effetto di uno che sia stato morsicato da una vipera. Dicono infatti che chi ha subìto questo, non vuole parlare di ciò che ha provato se non con quelli che sono stati pure morsicati, come se fossero i soli capaci di capire e di perdonare, se, sotto il dolore, ha osato fare e dire di tutto. Ora, anch’io sono stato morsicato, e nel punto più doloroso in cui si possa essere morsi. Infatti, è nel cuore e nell’anima, o comunque si debba chiamare questo in cui io sono stato colpito e morso dai suoi discorsi di filosofia, i quali si attaccano in modo più brutale della vipera, quando prendono un’anima giovane e non priva di doti, e le fanno fare e dire qualsiasi cosa. (…)”
Alcibiade diventerà un grande stratega militare, un mattatore politico, una figura controversa, trasformista, volitiva e potente. Nonostante la sua giovane età, non cede di fronte all’indifferenza di colui del quale è innamorato.
“Ma la seconda volta, teso il mio laccio, dopo aver cenato, tirai avanti la conversazione fino a tarda notte e, al momento in cui voleva andarsene, lo costrinsi a rimanere, adducendo il pretesto che era tardi. Riposava, dunque, sul letto vicino al mio, sul quale aveva cenato, e in quella stanza non dormiva nessuno tranne noi. Dunque, o cari, dopo che la lampada fu spenta e i servi furono usciti, mi è sembrato di non dover tergiversare, ma di dovergli dire liberamente le cose che pensavo. Allora lo scossi e dissi: “Socrate, dormi?” “No, no.”, rispose. “Sai che cosa ho pensato?” “Che cosa?”, disse. “Ho pensato – dissi io – che tu sia l’unico degno di diventare il mio amante, e mi pare che tu esiti a farmene parola. Ma il mio sentimento è questo: mi pare che sia del tutto privo di senno non concederti i miei favori anche in questo, così come in altro che ti facesse aver bisogno o della mia ricchezza o dei miei amici. Per me infatti, nulla è più importante di diventare quanto più possibile migliore, e per questo penso che non potrei trovare nessuno che mi dia un aiuto più valido di te. E per tale motivo io proverei molta più vergogna di fronte a quelli che capiscono, se non concedessi i miei favori ad un uomo come te, di quella che proverei invece di fronte ai più e agli insensati se ti concedessi i miei favori.”
Socrate allora, con il suo solito stile micidiale, loda l’avvenenza fisica di Alcibiade e gli dice di non valere personalmente nulla. Poi nega quanto ha appena detto e lo sottopone a un rifiuto atroce, dicendogli che quello che lui vorrebbe fare, darsi a lui per condividere i tesori della sua mente, sarebbe come “scambiare armi d’oro con armi di bronzo”. La bellezza e l’amore di Alcibiade non hanno valore ai suoi occhi. In realtà valgono moltissimo, perché sono il tallone d’Achille del ragazzo. La bellezza è una virtù potente, ma molto vulnerabile.
“Allora mi alzai, e, senza lasciargli dire più nulla, gli posi il mio mantello addosso, perché era d’inverno, e, sdraiatomi sotto questo logoro suo mantello, gettate le braccia attorno a quest’uomo veramente demonico e meraviglioso, rimasi lì tutta la notte. (…) Ma, sebbene io avessi fatto queste cose, costui mi fu di gran lunga superiore. Disprezzò e derise il fiore della mia giovinezza, e la oltraggiò.”
La vicenda di Alcibiade rappresenta la più grande sofferenza d’amore, quella del rifiuto. Nonostante la sofferenza, anzi, in virtù di essa, il suo sentimento non cambia. Dura negli anni, si sviluppa, arriva evidentemente a compimento, in tempi e modi che non ci è dato sapere. Altrimenti non si spiegano certe sottigliezze diagonali, certe contraddizioni, il loro litigio furioso all’inizio. Noi abbiamo praticato molte forme d’amore, e forse quello platonico è davvero il migliore, quello che più lentamente rispetto agli altri va incontro alla rovina. Lo abbiamo praticato molte volte. Forse è per questo che, e non ce ne vogliano i filologi più straight, facciamo fatica a credere alla purezza di Socrate e al legame illibato fra lui e Alcibiade.
“Perciò, mi trovavo privo di espedienti e, fatto schiavo da quest’uomo come nessuno da nessun’altro, gli giravo intorno.”
Alcibiade racconta che, nel corso del tempo, ha visto Socrate ripetere il medesimo schema di comportamento molte volte: si presenta come possibile amante, confonde gli animi dei ragazzi concupiti, inganna, gioca la sua strategia, e infine si ritrova nel ruolo privilegiato di amato. L’amato è come dio, e la prima caratteristica di tutti gli dei è la crudeltà, data dall’onnipotenza. Socrate, maestro di verità, ci insegna che per avere l’amore bisogna scordarsi del fair play e colpire dove fa male. Dove è ingiusto colpire, nei sentimenti e nelle qualità, in quello che l’altro ha di migliore di noi, quello che noi non possiamo avere e che vorremmo. Ma solo a patto di essere sicuri che l’altro ci ami.
Come stoccata finale al suo amante, Socrate dichiara di voler ricambiare il suo elogio facendo l’elogio di Agatone, il tragediografo per cui viene celebrato il simposio, famoso per la sua bellezza delicata.
Dalla notte del rifiuto a quella del simposio e oltre, molte cose sono destinate ad accadere. A diciassette anni Alcibiade diventa il protetto di Pericle. La sua vita è all’insegna della sfrenatezza e della dissipazione. Di lui si dice che “da adolescente allontanava tutti i mariti dalle mogli e da giovane tutte le mogli dai mariti.” Provoca anche un enorme scandalo religioso, mutilando dei genitali le statue delle Erme e facendo in ubriachezza la parodia dei misteri eleusini. Quando lo processano per empietà, durante il dibattito lui dice tranquillamente che lo possono anche uccidere. Viene condannato a morte in contumacia, tradisce la polis e la attacca per rovesciarne il governo. Questo gesto causa in maniera indiretta il processo e la condanna a morte di Socrate, di cui Alcibiade era stato allievo.
Quindi è vero, l’amore è un grande demone. È indefinibile, armato fino ai denti, trasformativo, potente, tanto che assomiglia quasi al nostro demonio. Come il demonio mente, illude, attacca la più nevralgica virtù, asservisce, prostra. E non perdona. Al di là di tutte le ideologie elencate fino alla fine del Simposio, al di là di tutto quello che ci piace credere, che l’amore sia una cura, una spinta al bello e al buono, una fonte di miglioramento, la più intima essenza del grande demone si rivela infine essere la crudeltà.
Per finire, come corollario alla nostra personale lettura del Simposio, vogliamo proporvi un frammento di Friedrich Nietzsche, uno dei pazzi che abbiamo amato di più.
“Il genio del cuore, il dio tentatore e l’innato accalappiatore delle coscienze, la cui voce sa scendere fino agli inferi di ogni anima, che non dice una parola, non lancia uno sguardo nel quale non ci sia una considerazione o una piega di seduzione, della cui maestria c’è il fatto di saper apparire, e non come egli è, ma come un legame in più per coloro che lo seguono, perché si stringano sempre più vicini a lui. (…) Il genio del cuore, che zittisce ogni voce acuta e compiacimento di sé e insegna ad ascoltare, che spiana le anime aspre e fa loro gustare un nuovo desiderio, di giacere in silenzio, come uno specchio, perché si rispecchi in essi il cielo profondo. Il genio del cuore, che insegna alla mano goffa e frettolosa ad esitare e ad afferrare delicatamente; che indovina il tesoro nascosto e dimenticato. (…) Il genio del cuore, dal cui contatto ognuno se ne parte più ricco, non graziato e non sorpreso, non come reso felice e oppresso da un bene estraneo, ma più ricco in se stesso, più nuovo di prima, forzato, spiato e sfiorato da un vento del disgelo, forse più insicuro, più delicato, più fragile, più spezzato, ma pieno di speranze che non hanno ancora nome, pieno di una nuova volontà e di un nuovo fluire, pieno di un nuovo risentimento e di un nuovo riflusso. (…) Ho dimenticato me stesso al punto di non nominarvi neppure il suo nome? A meno che voi non abbiate già indovinato da soli, chi è questo spirito problematico e questo dio, che vuol essere lodato in tal modo. Come succede infatti a chiunque che, fin dall’infanzia, sia stato sempre in viaggio e in paesi stranieri, così anch’io ho incontrato molti spiriti singolari e pericolosi durante il cammino, ma soprattutto quello di cui appunto parlavo, sempre ancora lui, niente meno che il dio Dionysos, quel grande dio bivalente e tentatore a cui un tempo, come sapete, ho offerto le mie primizie in gran segreto e con rispetto – l’ultimo, come mi sembra, che gli ha offerto un sacrificio: poiché non ho trovato nessuno che avesse capito ciò che facevo allora. (…) Quel dio che dice: “In certe circostanze io amo l’uomo (…) in ogni labirinto si trova ancora a suo agio. Gli sono amico: penso spesso a come condurlo più avanti, a come renderlo più forte, più cattivo e più profondo di quanto egli sia.”
_Fine seconda parte della seconda parte. _ La terza parte della nostra Storia del Diavolo sarà sull’Antico Testamento, sui suoi apocrifi e sulla demonologia ebraica B.C. in generale. Ma è un grande caos, e non sappiamo bene quando la finiremo. Abbiamo altri articoli in preparazione che verranno pubblicati prima. _ Insomma, Stay Tuned.
Bibliografia
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Platone, Simposio, Bompiani, 2000.
http://www.jungitalia.it/2014/01/05/daimon-demone-creativo-psicologia-e-tradizione/
https://it.wikipedia.org/wiki/Pederastia_greca
https://it.wikipedia.org/wiki/Ginnasio
https://it.wikipedia.org/wiki/Alcibiade
http://www.anticorpi.info/2012/12/nella-morsa-del-daimon.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Demone