Si pensa comunemente che l’origine del tatuaggio europeo sia legata all’età moderna, al commercio marittimo su larga scala e ai marinai. Si pensa anche che solo i popoli tribali extraeuropei, come i Maori, i giapponesi Ainu, i polinesiani, gli abitanti dell’isola di Taiwan o dello stretto di Bering possiedano una tradizione antica relativa alla pratica del tatuaggio.In realtà, la genesi del tatuaggio europeo ed eurasiatico si perde nella notte dei tempi. Le prime fonti storiche occidentali, le prime testimonianze scritte di Erodoto o Strabone, parlano dell’esistenza di popoli barbarici dediti al nomadismo, eccellenti cavallerizzi ed arcieri, con corpi dipinti e tatuati, che percorrevano in lungo e in largo le lande sconfinate fuori dal consorzio civile. Secondo gli storici classici, – che appartenevano, lo ricordiamo, a civiltà xenofobe fondate sullo schiavismo- queste popolazioni barbariche erano caratterizzate da abitudini aberranti. Kurgan, Sciti, Traci, o Celti che fossero, oltre a storpiarsi mediante marchi cutanei indelebili, non costruivano città, non avevano capi politici (con l’esclusione dei leader militari in tempi di guerra), e soprattutto cavalcavano, cacciavano e combattevano assieme alle loro donne, indelebilmente marchiate anch’esse, spesso più dei loro compagni. Tendenzialmente, queste popolazioni situate al di fuori della storia ufficiale avevano costumi egualitari e matrifocali, irriducibili quindi alla civiltà degli Imperi. Della comune usanza di tatuarsi diffusa fra questi barbari testimoniano svariati rinvenimenti, come pitture vascolari greche, riproduzioni antropomorfe in varia forma e, soprattutto, i corpi mummificati.
L’anno scorso Kainowska ha battezzato una nuova tendenza di tatuaggi figurativi monocromi con la dicitura Gothic Blackwork, in questo articolo e nel suo seguito. I temi ricorrenti di questo stile di tatuaggio sono perlopiù rappresentazioni animali, glifi provenienti dai codici figurativi dell’Europa Antica, figurazioni dal tramonto del Medioevo e dall’alba dell’Età Moderna, con demoni xilografici ed aperture anatomiche del corpo umano. Nel corso di questo articolo vedremo che la dicitura Gothic Blackwork funziona bene, perché non solo fa riferimento ad atmosfere medievali e proto-moderne, ma anche perché l’origine del tatuaggio europeo è barbarica, e barbarico è uno dei significati della parola gotico. Gli antichi Goti stanziati nei Balcani quasi sicuramente si tatuavano.
L’ideale di bellezza dei popoli barbarici era divergente rispetto ai canoni classici, perfetti, misurabili e puliti delle genti dell’Impero. I nomadi potevano possedere beni mobili solo in numero limitato. Quindi il loro status symbol maggiore era il loro stesso corpo, marchiato da segni permanenti che raccontavano la loro storia, il loro rango, la loro appartenenza e le loro imprese. Erodoto ha scritto che “presso i Traci l’essere tatuato (estìchthai) è giudicato segno di nobiltà, mentre è ignobile non esserlo”. Le donne tracie erano famose per le potenti arti magiche, i culti di sangue di cui erano adepte e per le facce tatuate, che destavano un grande scalpore nell’Atene del V secolo. La tribù tracia degli Agatirsi si tatuava il volto e le membra di colore blu, e dello stesso colore si tingeva anche i capelli. Dione Crisostomo, nel I secolo d.C., afferma che le donne tracie consideravano il tatuaggio un ornamento, oltre che un segno di nobiltà. Più erano tatuate, più erano importanti nella scala sociale. Per i Greci il tatuaggio era considerato invece quasi come una mutilazione, qualcosa che suscitava ribrezzo ed orrore, come uno sfregio, o una rivoltante cicatrice. Il verbo stizèin vuol dire sia tatuare che marchiare, e c’è una parola che deriva da questo verbo, stigmatìas, che indica lo schiavo marchiato a fuoco dal padrone allo scopo di punirlo per qualche insubordinazione. Secondo l’antropologa Michela Zucca i tatuaggi “da cose da barbari, divennero segni di schiavi, poi di proletari, infine di delinquenti, in ogni caso, di frange marginali della popolazione, portatrici di culture in aperto conflitto con l’establishment”.
LE SACERDOTESSE DELLA DEA E I LORO TATUAGGI
Nel meraviglioso saggio I Tatuaggi della Dea, Michela Zucca riprende gli studi di Marija Gimbutas sul culto della Grande Madre nell’Europa Antica e formula un’affascinante ipotesi. I reperti rinvenuti nelle Cicladi, nelle grotte pugliesi, presso la cultura Cucuteni e Vinca, le raffigurazioni femminili di corpi e volti percorsi da grafemi sacri non sono solo rappresentazioni della Dea, non sono solo oggetti consacrati alla divinità tramite questi segni, ma secondo Michela Zucca sono anche rappresentazioni realistiche delle sacerdotesse del suo culto. Queste sacerdotesse si tatuavano quindi i segni della Dea addosso, per rendere il proprio corpo sacro e per beneficiare della protezione della Grande Madre, esattamente come avveniva con i manufatti, che venivano consacrati alla Dea tramite i suoi sigilli.
Nelle Cicladi le bianche statue della Dea Osso, che raffigurano busti femminili con linee verticali sotto gli occhi, possono rappresentare sia la Signora della Morte sia le sue sacerdotesse. Le righe sotto gli occhi sarebbero quindi scarificazioni proprie della casta sacerdotale, che alludono alle lacrime del lutto, alla seconda vista che permette di comunicare con i morti e alla pratica di esporre i cadaveri finché gli animali non li abbiano scarnificati fino alle bianche ossa.
Un altro caso è quello della florida cultura Cucuteni-Trypillian. Questo insediamento neolitico non era, come si potrebbe pensare, un villaggio, ma un’area estesa fra la Romania e l’Ucraina, grande come uno stato, con città di quindicimila abitanti che prosperarono dal VI al III millennio a.C. Vi sono state rinvenute raffigurazioni di conclavi femminili, con piccole statue poste a cerchio, in cui le partecipanti, a seconda della loro importanza, avevano il corpo più o meno grande e più o meno ricoperto da segni, fatti secondo l’alfabeto simbolico della Grande Madre. Sui loro corpi stilizzati si riconoscono segni come chevron, losanghe, spirali, triangoli, fino ad arrivare a total body quasi completi, che partono dalle ginocchia ed arrivano alle spalle. Questo alfabeto simbolico allude alla vita, all’acqua, alla rigenerazione, all’energia, alle facoltà creatrici.
Fonti storiche successive parlano dei Traci affermando che fra queste genti della steppa “solo i più poveri non avevano alcun segno sulla pelle”. Ora, nelle culture tribali extraeuropee in cui i tatuaggi hanno valore di status, più alto è il rango del portatore e più sale il numero dei segni permanenti sul corpo del portatore.
Nella cultura Vinca, (area balcanica, VI-III millennio a.C.) i segni incisi sulle statuette sacre coprono tutta l’area del corpo, dalle caviglie fino agli arti superiori, e sono spesso simili a spire di serpente, uno degli animali più importanti del corteo della Grande Madre.
I culti della Dea dell’Europa Antica sono culti estatici e sciamanici. Tramite musiche percussive, danze, sostanze psicotrope ed altre tecniche per indurre la trance, l’officiante deve arrivare alla fusione con l’animale sacro, che può essere il serpente, la civetta, il cervo, la renna e molti altri ancora. Esso fa da tramite con la divinità, per mezzo del volo sacro. In questo contesto, l’animale non è considerato inferiore all’uomo, ma suo specchio e suo pari, quando non entità superiore, capace di adattarsi meglio all’ambiente naturale e di fare cose precluse all’uomo, come volare nell’aria, sopravvivere nell’acqua, vedere nel buio. Michela Zucca suppone che una buona parte del tatuaggio sacro dell’Europa Antica servisse a conferire alle sacerdotesse e agli sciamani tratti o lineamenti propri dell’animale, per facilitare le loro trasformazioni. Quindi le meravigliose maschere della Dea Civetta della cultura Vinca rappresentano anche le scarificazioni che venivano fatte alle sacerdotesse del suo culto, come i motivi geometrici sulle statue stele diffuse in tutta Europa nell’Età del Rame e del Ferro.
ÖTZI
Dopo questa veloce introduzione, in questo articolo ci concentreremo sulle testimonianze inequivocabili rispetto alla pratica del tatuaggio nell’Occidente euroasiatico antico, ovvero i rinvenimenti di decori permanenti sui corpi mummificati.
La più arcaica mummia tatuata è l’Uomo di Similaun, Ötzi, trovato all’inizio degli anni Novanta sulle Alpi Venoste al confine fra Italia ed Austria.
Ötzi è stato ucciso in modo rituale, da una freccia scoccata a distanza ravvicinata alla spalla sinistra, all’altezza del cuore. Dopo, o in prossimità della sua morte, i suoi oggetti sono stati disposti in cerchio intorno a lui. Fra questi oggetti ci sono un kit erboristico di pronto soccorso, due tipi diversi di funghi con proprietà psicoattive, un arco di legno di tasso, un pugnale di selce, una perla di marmo, una faretra con le frecce ed un oggetto di rame realizzato con una tecnica incredibilmente raffinata ed avanzata. Questi oggetti testimoniano il fatto che Ötzi era molto probabilmente uno sciamano, o un capo guerriero, oppure entrambe le cose. Al di là del corredo di oggetti, Ötzi indossava stivali imbottiti di pelliccia, calze e giacca a vento di paglia, cappello di pelo di orso. Sul suo corpo sono stati rinvenuti più di cinquanta piccoli tatuaggi, composti principalmente da gruppi di linee parallele, punti e crocette. La tecnica di realizzazione consisteva in tagli che venivano riempiti di carbone vegetale. Spesso questi segni sono in corrispondenza delle articolazioni, punti in cui esami più approfonditi hanno rivelato segni di artrite, che Ötzi aveva contratto in una particolare forma batterica conosciuta oggi come Malattia di Lyme. È presumibile quindi che i tatuaggi di Ötzi avessero una funzione curativa e magica.
LE GUERRIERE KURGAN
La parola “kurgan” indica un tipo particolare di inumazione, in cui le sepolture vengono ricoperte da un tumulo, un alto mucchio di terra e pietre.
Quest’usanza è stata importata nel continente europeo da una popolazione che prende il suo nome dalle sue usanze funebri. I Kurgan li abbiamo sempre conosciuti secondo la prospettiva di Marija Gimbutas. La Gimbutas vedeva questo popolo come un’orda nomadica di guerrieri che erano penetrati nel continente europeo distruggendo le culture matrifocali basate sul culto della Dea, per sostituirle con il patriarcato e il culto di dei ed eroi solari maschili. Queste teorie sono state radicalmente confutate da studi successivi, che riconoscono come fra queste popolazioni le donne fossero spesso collocate ai vertici della scala sociale. Lo confermano numerose sepolture a kurgan di donne riccamente armate, come le 40 tombe di donne scite trovate dall’archeologa Renate Rolle nel 1980.
Erodoto scrive che fra gli Sciti e i Sauromati le donne si vestivano come gli uomini, cavalcavano, andavano a caccia e scendevano in guerra, ritenendo queste popolazioni discendenti delle Amazzoni. Nelle loro tombe sono state rinvenute, oltre alle armi, anche gioielli, specchi divinatori, fusaiole e strumenti per cucire. Non erano quindi donne mascolinizzate, ma semplicemente donne abili all’arte della guerra, capaci di difendersi e di combattere in un mondo in cui il conflitto armato era all’ordine del giorno. L’archeologa Renate Solle ha rinvenuto una sepoltura scita con una ragazza armata morta fra i dieci e i dodici anni di età. Molti scheletri femminili sciti mostrano segni di traumi da combattimento, con scheggiature sulle ossa procurate parando i colpi con avambracci (soprattutto il sinistro), oppure con le tibie. È probabile che le donne delle popolazioni nomadi della prima Età del Ferro, ovvero i Kurgan, le tribù caucasoidi dei Saka, dei Sarmati e dei Sauromati, ricevessero un addestramento militare che iniziava verso la fine dell’infanzia. È probabile che queste donne scendessero in battaglia fino alle soglie dei vent’anni, per poi sposarsi, avere dei figli, crescerli, ed infine tornare ad occuparsi di questioni pubbliche e belliche in età matura, con un nuovo status che univa gli attributi militari a quelli della casta sacerdotale. A prova di ciò, nelle tombe delle ragazzine si ritrovano solo armi, dai vent’anni in su oggetti femminili classici, mentre nelle tombe delle donne mature armi e segni del sacerdozio. Secondo Erodoto, fra i Sauromati nessuna ragazza poteva sposarsi se prima non aveva ucciso un nemico in battaglia. Le truppe femminili costituivano un quinto dell’esercito, ed erano composte prevalentemente da arcieri a cavallo.
LO SCIAMANO DI PAZYRYK
Le popolazioni di barbari tatuati che stiamo prendendo in considerazione per questo articolo avevano una gittata territoriale che andava dai limiti delle foreste ungheresi fino alle steppe della Manciuria e della Siberia, per arrivare al Tibet e alla catena montuosa dell’Altaj.
Pazyryk si trova sulle montagne della Siberia occidentale e meridionale, a circa 200 chilometri dal confine fra Cina e Russia. Qui è stata rinvenuta una necropoli, di una popolazione prevalentemente caucasica di pastori-guerrieri, dediti anche al commercio. Dentro alle sepolture sono stati ritrovati oggetti di magnifica fattura, ed alcuni corpi mummificati ricoperti di splendidi tatuaggi. Michela Zucca scrive: “La cultura di Pazyryk fiorì in una società ricca, egualitaria e non sessista, che riuscì a tenersi a debita distanza dagli imperi di allora: quello romano e quello cinese (o forse riuscì a diventare una delle più floride del mondo proprio perché nacque egualitaria e non sessista, e si mantenne lontano dai centri di potere che l’avrebbero fagocitata).”
Nel 1948 l’archeologo Sergei Ivanovich Rudenko ha scoperta quella che è considerata la più bella mummia tatuata del mondo. Sono le spoglie di un uomo dalla corporatura massiccia e tarchiata, morto in prossimità dei cinquant’anni. I suoi tatuaggi ricoprono entrambe le braccia, si allungano sul costato e su una scapola. Una gamba è deteriorata, quindi non si può stabilire se ci fossero tatuaggi, ma quella sinistra è tatuata dal ginocchio in giù. I motivi sono straordinari intrecci di figure teriomorfe: renne, tigri, cervi, serpenti, pesci, capre di montagna, draghi, grifoni, mostri, asini, aquile, falchi, animali volanti, ungulati, predatori ed abitatori dell’acqua, in una ridda di figure simboliche che fungono da specchio del mondo naturale, sociale e spirituale. Molti di questi animali sono rappresentati in una posizione avviticchiata, con le zampe posteriori in su, che conferisce loro un grande dinamismo. Questo dinamismo era accentuato dal corpo vivo del portatore, e dal fatto che i tatuaggi si trovano sui punti più mobili del corpo, le gambe e le braccia. Altri piccoli tatuaggi si trovano lungo la linea della colonna vertebrale, molto simili a quelli curativi di Ötzi. A tutt’oggi ci sono delle tribù siberiane che continuano a farsi tatuaggi analoghi contro il mal di schiena.
La tecnica di esecuzione è estremamente raffinata, fatta con aghi molto sottili, quindi si tratta di veri e propri tatuaggi e non più scarificazioni riempite di colorante, con risultati paragonabili a quelli odierni.
È molto probabile che quest’uomo sia stato uno sciamano di alto rango, e forse i suoi tatuaggi rappresentano gradi sempre più elevati dell’iniziazione, con facoltà trasformative in tutti gli animali rappresentati. Fra gli Sciti l’uso di cannabis era molto diffuso. Nel kurgan di Pazyryk è stato trovato anche un cratere utilizzato per bruciare semi di cannabis, per fare suffumigi rituali all’interno di una piccola tenda chiusa. Oltre a ciò, è stato rinvenuto anche un indumento sciamanico, un cappuccio che copriva gli occhi e il volto, usato per le inalazioni di cannabis e per le successive danze in regime di semi-deprivazione sensoriale. Cieco o zoppo, lo sciamano deve sempre essere un po’ storpio, un po’ freak, diverso e separato dagli altri. Solo in questo modo può entrare in contatto con il mondo liminale degli spiriti.
Si suppone che l’uomo tatuato di Pazyryk fosse uno sciamano ed un maestro d’armi.
LA RAGAZZA DEI GHIACCI E LA MODA
BARBARICA DELL’EUROPA ANTICA
Nel 1993, sempre sulla catena montuosa dell’Altaj, ad Ukok, la direttrice del Natalia Viktorovna Polo’mak rinviene tre guerrieri mummificati, vissuti 2500 anni fa, due maschi e una femmina. I corpi sono tutti magnificamente tatuati, ma la femmina è quella che, in base alla ricchezza del suo corredo e alla sua posizione all’interno del kurgan sepolcrale, detiene lo status più alto. Quest’amazzone è conosciuta come la Ragazza dei Ghiacci, o come la Principessa di Ukok, per quanto non ci siano fonti che attestano la presenza di una casta aristocratica presso gli Sciti. Ma tutto fa pensare che, rispetto agli altri guerrieri con cui è stata sepolta, la ragazza detenesse sicuramente una posizione di leadership. La storia del suo rinvenimento, i suoi oggetti e la sua persona hanno una fortissima connotazione mitica, tanto che sembrano usciti da una fiaba. Il corpo della Ragazza di Ukok viene rinvenuto all’interno di un tronco di larice scavato, decorato con un motivo di alci e ghepardi delle nevi in rilievo, ricoperti di foglia d’oro. Dopo essere stata sepolta, il suo corpo è stato ricoperto da una pioggia gelata, che ha riempito la cavità funebre della bara di larice, imprigionando la guerriera in una lastra di ghiaccio nel permafrost siberiano per più di due millenni. All’interno del kurgan sono stati trovati ricchissimi gioielli, armi, strumenti per fumare la cannabis, una borsetta con dentro semi di marijuana, un’arpa, uno specchio divinatorio, dei raffinati oggetti per la toeletta, dei vestiti di ricambio, del vasellame e sei cavalli sacrificati.
Le vesti della Ragazza di Ukok e quelle dei suoi compagni d’armi sono estremamente lussuose, anche se non del tutto consone ai rigori del clima dell’Altaj. Segno che i due guerrieri preferivano soffrire un po’ il freddo piuttosto che rinunciare ai loro vestiti eleganti. La ragazza di Ukok indossava stivali di feltro fin sopra al ginocchio, di color bianco, con un ricco ricamo sull’orlo. L’abito principale è un’ampia e lunga tunica di lana, lunga 144 centimetri, larga 90 cm nella parte superiore e 112,5 in quella inferiore, tenuta su da una cintura di lana intrecciata. La tunica è composta da tre pezzi di stoffa tinti separatamente, porpora quello superiore, rosa giallastra quella centrale, bordò quella inferiore. Sopra questo vestito, la ragazza portava una casacca bianca, ornata di passamanerie rosa, con scollo rotondo e maniche strette. Oltre a questi due capi, aveva anche un caftano, un cappotto corto con una coda più lunga sul retro, con inserti di pelle e pelliccia. Inoltre aveva due camicie di seta bianca nel bagaglio, come vestiti di ricambio. La seta non era di provenienza cinese come si potrebbe pensare, ma veniva da molto più lontano, Assam probabilmente, a 3000 chilometri di distanza.
Ma il particolare più raffinato di tutti è l’acconciatura. La Principessa di Ukok aveva la testa rasata, come molte altre donne di Pazyryk. Questo è un accorgimento logistico molto comune fra chi è abituato a combattere. In battaglia, i capelli costituiscono un punto debole del corpo, perché possono essere facilmente afferrati. Nondimeno, quando non combatteva, la Ragazza dei Ghiacci indossava una monumentale parrucca, alta 84 centimetri. La base era di un materiale nero flessibile ed aderente al capo, con due ali di capelli veri, e al centro un ciuffo avvolto intorno ad un filo di lana, su una struttura eretta e verticale. Sopra a questa ciocca c’era un nakosnik, ovvero una decorazione fatta con fili intrecciati. “In cima a questa struttura c’era una spilla di bronzo con un cervo in piedi su una sfera, realizzata in legno e coperta in foglia d’oro. La parrucca aveva un altro dettaglio molto importante: il suo coronamento sembrava una piuma gigante, lunga 68,5 cm, confezionata in feltro e rivestita di lana nera, con un bastone all’interno per sostenerla. Questa piuma era decorata con 15 figure di uccelli in dimensione decrescente, composti di ali di pelle, coda, zampe e il collo lungo, molto probabilmente a riprodurre dei cigni. Alla base dell’albero c’era una figura di legno: un cervo con corna di capricorno.”
Per coprire questo capolavoro, per proteggerlo dalle intemperie, la Ragazza dei Ghiacci portava un alto cappello a punta di feltro, il cappello tipico dell’iconografia delle streghe. Molte altre genti barbariche lo portavano.
La Ragazza di Ukok soffriva di osteomielite, aveva un tumore maligno ad entrambi i seni, ed è morta a venticinque anni. Le sue spoglie presentano traumi e fratture rimarginate alla testa e agli arti, tipici di chi era solito combattere a cavallo, che possono aver causato l’osteomielite. I suoi oggetti testimoniano che era una guerriera con gusti raffinatissimi in fatto di abbigliamento, un’amante del bello, un’esperta di pratiche sciamaniche. Era edotta nelle saghe delle sue genti, che cantava accompagnandosi con lo strumento musicale rinvenuto nella sepoltura.
I tatuaggi sulle sue mani e sui suoi polsi sono stati il primo particolare balzato agli occhi dei ricercatori una volta sciolta la lastra di permafrost dentro al quale il corpo della Ragazza di Ukok era imprigionato all’interno della camera sepolcrale. Questi tatuaggi sono stati realizzati con aghi molto sottili, che andavano a bucare la pelle, la quale poi veniva sfregata con grasso animale misto a nerofumo, ricavato da piante ricche di potassio e minerali bruciate. Il tatuaggio più rilevante è quello posizionato sulla spalla sinistra, che rappresenta un cervo con favolose corna fiammeggianti, provvisto di un becco da grifone, “una delle versioni del drago della Dea”. Stesso soggetto si ritrova per il tatuaggio al polso. Al di sotto si trova una pecora cornuta, con accanto un leopardo delle nevi dal corpo nero maculato. Anche uno dei guerrieri sepolti con la ragazza, quello più vicino a lei, presenta lo stesso animale fantastico tatuato sulla spalla sinistra, il cervo grifone con corna ad albero, figura del drago, animale legato alla magia e al totemismo, capace di volare, strisciare sottoterra, protettore delle acque abissali e delle fonti, signore del fuoco e dell’aria. Il drago riunisce caratteristiche di molti regni animali, rettili, ungulati, pesci, uccelli, leoni. Privo delle polarità tradizionali di bene/male, giusto/ingiusto, spaventoso/incantevole, proprie del legalismo del paradigma imperiale romano e di quello giudaico-cristiano, il drago riunisce tutto in sé, proprio come la Dea della Vita e della Morte. È simbolo di complessità, fecondità, energia infinita. È “guardiano del mistero del potere” ma soprattutto guardiano di un certo tipo di conoscenza, e chi non è pronto per affrontarlo ne rimane annientato. Il serpente è iconograficamente e simbolicamente figlio del drago, e ricorre nella tradizione figurativa dei Celti e fra i Traci, che ci hanno lasciato placchette, componenti di armature e corni in cui si vede la Dea che cavalca il drago.
Questi tatuaggi sono secondo Michela Zucca “una scrittura sacra destinata a trasmettere informazioni importanti, forse di carattere mitologico”, segnando probabilmente l’appartenenza ad un ordine di sciamani guerrieri che in battaglia si trasformavano nell’animale sacro. Usanze di questo tipo sono attestate presso molte popolazioni barbariche, fra i Celti come fra i vichinghi, fra cui c’erano i guerrieri lupo, i guerrieri orso e i guerrieri cinghiale, rispettivamente uflhendharn, berserker e svinfilkyng, e sicuramente erano vivissime anche fra gli Sciti e le genti delle steppe.
“Per i guerrieri tatuati si potrebbe forse ipotizzare l’appartenenza comune a una specie di ordine religioso, che gestiva i riti di trasformazione in animale degli altri guerrieri per mezzo della trance provocata dalla cannabis. Forse si trattava di maestri d’arme consacrati, delegati dalle proprie comunità all’addestramento dei giovani alla guerra, docenti di una vera e propria scuola iniziatica di trasformazione in bestia fantastica. Forse appartenevano all’ordine del drago, il più potente simbolo della Dea, e combattevano in suo nome.”
Il saggio di Michela Zucca, oltre ad indagare nel profondo immagini bellissime che abbiamo intravisto di sfuggita su internet (come le foto della Ragazza di Ukok o i tatuaggi tradizionali delle nonne balcaniche), offre un’inedita prospettiva sui protagonisti tradizionalmente minori della storia. Ci fa conoscere genti che hanno vissuto per millenni in società egualitarie e non sessiste, che hanno percorso l’Eurasia in lungo e in largo, stagliandosi sull’orizzonte con i loro cavalli, le loro maestose parrucche, i loro archi e i loro cappelli a punta. Sono esistiti per millenni. Sapevano combattere, cantare le saghe dei loro popoli, avevano una spiritualità sontuosa ed estatica. Conducevano esistenze piene ed intese, uomini o donne che fossero. Erano ricchi, forti, raffinati, colti. Ed erano tatuati.
Bibliografia
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Michela Zucca, I Tatuaggi della Dea, Venexia, 2015.
Marija Gimbutas, Il Linguaggio della Dea, Venexia, 2008.
http://www.michelazucca.net/
Le immagini della Principessa di Ukok provengono dal sito
E anche da
http://lastoriaviva.it/la-principessa-siberiana-i-suoi-tatuaggi-e-altre-storie/