Stavrogin: “Nell’Apocalisse l’angelo giura che il tempo non esisterà più”
Kirillov: “Lo so. Questo è detto là molto giustamente; con chiarezza e precisione. Quando tutto l’uomo raggiungerà la felicità, il tempo non ci sarà più, perché non occorrerà. È un’idea molto giusta.”
Stavrogin: “Dove, dunque, lo nasconderanno?”
Kirillov “In nessun posto lo nasconderanno. Il tempo non è un oggetto, ma un’idea. Si spegnerà nella mente.”
Satov: “E’ vero che avete appartenuto a Pietroburgo a una società segreta di sensualità bestiale? È vero che il marchese de Sade avrebbe potuto imparare da voi? È vero che adescavate e corrompevate i bambini? Dite, non osate mentire!” (…)
“Queste parole le ho dette, ma i bambini non li ho offesi”- proferì Stavrogin, ma dopo un silenzio troppo lungo. Impallidì, e i suoi occhi si accesero. (…)
Il diavolo sa cosa intendono fare questi demoni. Io non ci ho mai capito nulla.
Pjotr Stepanovic Verchovenskij: “Chiudete presto le chiese, distruggete Dio, violate i matrimoni, annullate i diritti dell’eredità, prendete i coltelli. (…) Al mondo manca una cosa sola, l’obbedienza. La sete dell’istruzione è già una sete aristocratica. Non appena c’è la famiglia o l’amore, ecco già anche il desiderio della proprietà. Noi faremo morire il desiderio: spargeremo le sbornie, i pettegolezzi, le denunce; spargeremo una corruzione inaudita; spegneremo ogni genio nelle fasce. (…) Ma occorre anche la convulsione; a questo penseremo noi, i dirigenti. Gli schiavi devono avere dei dirigenti. Piena obbedienza, piena assenza di personalità, ma una volta ogni trent’anni Sigaliov scatena anche la convulsione, e tutti cominciano a un tratto a divorarsi l’un l’altro, fino a un certo punto, unicamente per evitare la noia. La noia è una sensazione aristocratica; nello sigaliovismo non ci saranno desideri. Il desiderio e la sofferenza è per noi, e per gli schiavi c’è il sigaliovismo. (…)… e il delitto non è più pazzia, ma è proprio il buon senso, quasi un dovere, per lo meno una nobile protesta. Beh, come fa un omicida evoluto a non uccidere, se gli occorre il denaro? Ma questi non son che zuccherini.
Il Dio russo si è ormai ritirato davanti alla vodka a buon mercato. Il popolo è ubriaco, le madri ubriache, i bambini ubriachi, le chiese vuote e ai tribunali: “Duecento vergate, oppure porta un secchio.” Oh, fate che la generazione cresca!
Noi proclameremo la distruzione… perché, perché ancora una volta quest’idea è così affascinante!”
E a un tratto, del resto con le parole più brevi e sconnesse, così che certe cose riuscivano difficili a capirsi, raccontò che andava soggetto, spesso la notte, a certe allucinazioni, che talvolta vedeva o sentiva accanto a sé un essere maligno, beffardo e “ragionevole”, “sotto forma di diverse persone e di diversi caratteri, ma sempre lo stesso”. (…) Stavrogin cominciò di nuovo ad irritarsi a ogni parola: “ S’intende che lo vedo, lo vedo così, come ora vedo voi … e talvolta lo vedo e non sono persuaso di vederlo, benchè lo veda … e talvolta non so chi dei due esista realmente: io o lui… Sono tutte sciocchezze. Ma voi non potete supporre in nessun modo che sia davvero il diavolo?” (…)
Tichon: “E’ più probabile che sia la malattia, benchè…”
Stavrogin: “Benchè che cosa?”
Tichon: “I demoni esistono indubbiamente, ma il modo d’intenderli può essere abbastanza vario.”
Nicolaj Vsevolodovich Stavrogin : “Avevo trovato il temperino sul mio letto, dove doveva essere caduto dalla tavola. Mi venne allora subito in mente di non dirlo, perché la bambina fosse fustigata. La decisione fu istantanea; in simili momenti mi si mozza sempre il respiro. (…) Ogni situazione straordinariamente ignominiosa, oltremodo umiliante, vile e, soprattutto, ridicola, in cui mi è capitato di trovarmi in vita mia, ha sempre suscitato in me, accanto a uno sdegno smisurato, un’incredibile delizia. (…) Non la vigliaccheria amavo (qui la mia ragione era perfettamente intatta) ma l’ebbrezza mi piaceva per la tormentosa coscienza della bassezza. (…)Ritenni questo subito allora; dunque ero allegro, soddisfatto e non mi abbandonavo all’ipocondria. Così pareva dall’aspetto. Ma ricordo che sapevo di essere assolutamente un basso e turpe vigliacco per la gioia della mia liberazione e che non sarei stato mai più nobile d’animo, né qui, né dopo la morte, né mai.”
I sogni lo trascinavano ininterrottamente ed ininterrottamente si spezzavano, come dei fili marci.
Dalla stanza s’udirono infine ormai non più dei gemiti, ma orribili grida puramente animali, insostenibili, impossibili.
Kirillov “Io sono obbligato ad uccidermi, perché il momento più alto del mio arbitrio è uccidere me stesso.”
Verchovenskij: “Ma non siete mica il solo ad uccidervi: ci sono molti suicidi.”
Kirillov: “Con una ragione. Ma senza alcuna ragione, ma solo per l’arbitrio, sono l’unico”
Quivi sul monte pascolava una greggia di gran numero di porci, e quei demoni lo pregarono che permettesse loro d’entrare in essi. Egli lo permise loro. I demoni, usciti dall’uomo, entrarono nei porci; e la greggia si gettò dal precipizio nel lago, ed affogò. I pastori, quando videro ciò ch’era accaduto, corsero e lo raccontarono nella città e pei villaggi. E uscirono gli abitanti a vedere ciò ch’era accaduto; e venuti a Gesù, trovarono l’uomo dal quale i demoni erano usciti, seduto ai piedi di Gesù, vestito ed in buon senno; e sbigottirono. Mentre coloro che lo avevano veduto, raccontarono loro come l’indemoniato era stato liberato.
Vangelo di Luca, 8, 32-37
Stepan Trofimovich: “Siamo noi, noi e quelli, e io forse primo in testa agli altri, e ci precipiteremo, folli ed indemoniati, giù dalla rupe nel mare e affogheremo tutti, e questa è la nostra sorte, perché non saremo capaci che di questo.”
Nicolaj Vsevolodovich Stavrogin: Non incolpate nessuno, sono stato io.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I DEMONI, 1873
Sergej Petrovich Baldaev, un etnologo del folklore buriata, relativo al popolo di sciamani stanziati in Siberia sulle sponde del lago Bajkal, sostiene che la parola Russia deriva dal sanscrito Rossiya, che vuol dire “territorio o campo sperimentale dei Demoni”.
Martina Corradi compone un ciclo di opere ispirato all’iconografia russa, dalle fiabe, alle suggestioni pittoriche dell’Ottocento, alle figure sacre della chiesa ortodossa, alle icone dell’ultimo Zar e di Rasputin, fino ad arrivare ai tatuaggi carcerari. Questa ricerca, in unione con il grande romanzo di Dostoievskij sull’odio, sul male e sul caos Biesy (Бесы), ci servirà per capire quali forme possono assumere i Demoni sullo sfondo dello sconfinato orizzonte russo.
Il primo Demone di cui ci occuperemo è Baba Jaga.
La storia di Vassilissa e Baba Jaga fa parte dell’enorme tradizione orale di miti, fiabe e leggende dell’Europa dell’Est, ed è stata messa per iscritto nell’Ottocento da Alexander Nicolajevich Afanasyev. Racconta la vicenda della figlia di un mercante, Vassilissa, che fin dalla culla viene detta “la Bella”. A otto anni, Vassilissa rimane orfana di madre. Poco prima di morire, la madre le lascia in dono una bambola magica, che deve nutrire di kvass e pane ogni volta che il male la minaccia o che il dolore vuole impossessarsi di lei. Dopo aver fatto mangiare la bambola, Vassilissa deve confidarle i suoi problemi, ed ascoltare il suo consiglio. A metà strada fra feticcio voodoo, psicanalista con onorario in natura, avatar della mamma morta, la bambola è fin da subito molto indaffarata. Aiuta Vassilissa ad elaborare il lutto, dicendole che il dolore sembra più profondo durante le solitudini della notte, e le da una mano ad abituarsi alla crudeltà della matrigna e delle sorellastre, con la tecnica del non reagire alle provocazioni e di fare tutto quello che le ordinano senza lamentarsi mai. La bambola aiuta Vassilissa nelle faccende, le insegna a farsi una lozione di erbe per prevenire le ustioni solari e per preservare il capitale del suo incarnato da Biancaneve. La matrigna picchia Vassilissa ad ogni proposta di matrimonio che riceve, e non sono poche. La bambola magica è la sua unica ragione di vita. Un bel giorno, durante la stagione delle fiere, mentre il padre è lontano, la matrigna vende la casa e tutte le proprietà, e si trasferisce assieme alle figlie e a Vassilissa in una zona tetra e lontana, al limitare di una foresta selvaggia. La matrigna manda Vassilissa in continuazione a cercare erbe, bacche e funghi nel bosco, pur sapendo molto bene che ci abita Baba Jaga, una strega antropofaga che vive in una capanna su zampe di gallina. Baba Jaga è un famoso demone femminile slavo. Spesso è raffigurata mutilata di una gamba, cieca, con lunghi seni penzoli. Si accompagna a gufi, corvi e serpenti.
Un giorno, tramite un tranello durante una serie di lavori di cucito, Vassilissa viene mandata a chiedere di accendere il fuoco proprio alla capanna della vecchia Baba Jaga. La bambola è il suo talismano, finchè ce l’ha Baba Jaga non può mangiarla. È notte, e il viaggio attraverso la foresta è difficile. Vassilissa incontra tre cavalieri, il primo vestito di bianco su un cavallo bianco, che fa arrivare le prime luci dell’alba. Il secondo è vestito di rosso, cavalca un destriero rosso, e la sua apparizione fa sorgere il sole e fa smarrire a Vassilissa la strada. Vassilissa cammina per tutto il giorno, senza mangiare né bere, ed infine arriva alla casa su zampe di gallina. I suoi muri sono fatti d’ossa e ci sono teschi con denti appuntiti infilzati sulla staccionata. Appena vede la casa, compare l’ultimo cavaliere, nero, con il volto dipinto di nero, su un cavallo nero. Il cavaliere entra attraverso il cancello della casa, e scompare nel nulla, e in quel momento cala il buio. Le orbite dei teschi iniziano a brillare di un bagliore incandescente.
La strega Baba Jaga non cavalca una scopa, ma un mortaio per fare il burro. Usa la scopa per cancellare le sue tracce, come una bestia astuta, ma i suoi spostamenti nel bosco sono rumorosi come un terremoto. È d’accordo a dare il fuoco a Vassilissa, ma Vassilissa in cambio deve ripagarla con del lavoro. Deve rimanere nella sua casa, a meno che non voglia essere subito mangiata. La strega le assegna delle faccende impegnative, e la minaccia è sempre quella di finire in tavola. La vecchia mangia carne come tre uomini adulti, bevendoci dietro kvass, miele, birra e vino. Vassilissa deve separare un quarto di misura di grano dai piselli selvatici, e pulire una misura di semi di papavero sporchi di terra, uno per uno. Ogni volta che Vassilissa deve svolgere un compito impossibile, la bambole le dice di stare tranquilla, dire le sue preghiere, ed andare a letto. E questo basta per confortare la ragazza. La bambola fa tutto al posto suo, ma questo è un dettaglio, e forse non corrisponde alla verità nascosta dietro le forme della fiaba.
Similmente alla Sfinge cannibale del mito di Edipo, o alla sanguinaria principessa Turandot, Baba Jaga sfida Vassilissa in una gara retorica. Ma non è la strega a porre gli indovinelli, bensì Vassilissa, che deve fare alla vecchia megera tre domande, facendo ben attenzione a non farle la domanda sbagliata, a non chiedere troppo. Le chiede quindi dei cavalieri, che si rivelano forze elementari, luce, sole, oscurità, e che non possono nuocerle. I cavalli rappresentano la tenacia della ragazza. La vecchia vorrebbe che Vassilissa domandasse delle mani scorporate che preparano i suoi pasti, ma questa domanda scaglierebbe chi la pone alla mercé delle mani, che la trasformerebbero in cibo per il Demone che servono. E quando la strega, furibonda, chiede alla ragazza come ha fatto a portare a termine i compiti assegnati, Vassilissa esita, prima di capire che non deve parlare della bambola. E, dato che non può eludere la domanda, e nemmeno mentire, dice che è riuscita nei suoi compiti perché è sotto la protezione di una benedizione materna. Baba Jaga non può sopportare di avere qualcuno che porta l’influenza di una benedizione dentro alla sua capanna su zampe di gallina, e caccia Vassilissa, decretando la sua salvezza, e dandole anche il fuoco che era venuta a chiedere, racchiuso dentro ad uno dei teschi della palizzata. Appena la matrigna e le sorelle toccano il teschio, immediatamente vengono avvolte dalle fiamme, e muoiono.
La fiaba non finisce qui. Dopo aver sepolto i corpi carbonizzati, la ragazza prova a filare del lino, ma il filo che ne ricava è sottile come bava di ragno, inadatto per qualsiasi ordito. La bambola si fa portare crini di cavallo, ed infine Vassilissa tesse una tela. La tela è talmente perfetta e fine che viene mostrata allo Zar in persona. Nessuno è in grado di cucire una camicia da quella tela così sottile, tranne Vassilissa stessa, questa volta senza l’aiuto della bambola. E grazie alla sua arte e bellezza, Vassilissa la Bella diventa la sposa dello Zar.
Insomma, sembrerebbe proprio che Vassilissa sia una strega a sua volta. Riesce a sedurre il Re. Comunica con i morti. Nulla riesce a nuocerle. Ha un feticcio che prende vita e la serve, facendo tutti i lavori per lei, a parte il suo capolavoro. Padroneggia a livelli incredibili le arti magiche del cucito e della tessitura.
La tessitura simboleggia l’unione dei destini degli uomini, del tempo e dello spazio, di visibile ed invisibile. Rappresenta la nascita e la creazione a partire da sé. Rappresenta anche le arti del linguaggio, grazie alle quali Vassilissa trionfa sulla strega. Baba Jaga, da parte sua, rappresenta una tipologia di potere fagocitante e totalitario, e le mani senza corpo che lavorano per lei indicano la schiavitù e l’asservimento totale.
A livello etno-antropologico, Baba Jaga potrebbe rappresentare l’incarnazione del senso di colpa per un’abitudine diffusa nella regione dei Carpazi fino alla fine dell’Ottocento. Durante gli inverni di grande carestia, quando le temperature arrivavano molto al di sotto dello zero ed intere famiglie rischiavano di morire di fame, spesso le persone anziane e non più autosufficienti venivano stordite con grandi quantitativi di alcol ed abbandonate nella foresta di notte, a morire di freddo. Era una prassi comune, ed accettata da tutti, dai preti e dai pope che celebravano le esequie dei cadaveri assiderati, dagli anziani condannati, dai loro figli adulti che li condannavano, sapendo che forse la stessa sorte sarebbe toccata a loro nel giro di qualche decina d’anni. Per contrappasso, Baba Jaga cavalca un mastello per fare il burro, simbolo di abbondanza. Mangia quantitativi di cibo che potrebbero sfamare una famiglia intera e si nutre di carne umana. Nell’incubo dell’inconscio, chi ha abbandonato alla morte l’anziana madre per non morire di fame, potrebbe essere divorato dalla stessa madre, trasformatasi in seguito alla morte innaturale in spirito maligno.
Baba vuol dire “donna senza grazia”, e Jaga potrebbe derivare dallo slavo antico, (j)ęga, ovvero “tortura”, “pericolo”, “pericoloso”. Gli studiosi ritengono che prima della connotazione demoniaca e cannibale, Baba Jaga fosse una Signora degli Animali o una figura che fungeva da tramite con il mondo dei morti.
La casa su zampe di gallina è stata raffigurata da Mikolaj Roerich in uno schizzo dal titolo La Capanna della Morte, ma il pittogramma della zampa di gallina, utilizzato nelle decorazioni dei proto-slavi, simboleggiava l’abbondanza e la fertilità, il buon consiglio, la cura della propria prole. Qualcosa di molto diverso dal demone mangia-bambini. Lo studio di Dobroslaw Wierzbowski sui loro pittogrammi sacri delle antiche uova cultuali dipinte dalle popolazioni proto-slave sostiene che la versione a noi nota della strega Baba Jaga sia la demonizzazione del culto pre-cristiano della coppia divina dei Mokoszy, divinità del destino, degli intrecci, della tessitura, del racconto, della farina e degli impasti, della fiaba, della divinazione. I Mokoszy erano protettori dei ragni, capaci di cambiare il fato degli uomini e di rivelarlo loro in forma contradditoria e non univoca, e i loro santuari erano detti “case su zampe di gallina”, perché c’era la credenza che roteando una zampa di gallina nell’aria si potesse scacciare la cattiva sorte. Anche la croce, anticamente, era un simbolo di Mokosza, la dea degli intrecci.
C’è un’altra lectio per cui Baba Jaga non sarebbe direttamente Mokosza, ma Jagodova Baba, la Donna delle Bacche, figlia di Chorsa, un freddo dio lunare, e di Marszanna, la Signora della Morte, della Vecchiaia e dell’Oblio. La figlia di Marszanna è sempre stata raffigurata come un’orribile vecchia. Jagodova Baba è la divinità della salute e della malattia, del dolore e della febbre, conoscitrice delle piante medicamentose. Uno dei suoi attributi è un cesto pieno di erbe, radici e frutti del bosco. Suo figlio si chiama Kościej Bezśmiertny, Ossuto Senza Morte, patrono del buio, dello stordimento, del mare profondo in cui la luce non passa, del trionfo della notte sul giorno, della magia nera e della necromanzia. È rappresentato come serpente cornuto nell’arte degli Sciti e dei Sarmati.
Qual è la morale della fiaba di Vassilissa, del nucleo della fiaba, ovvero del confronto con il demone femminile Baba Jaga? Cosa ci racconta questo mito, rispetto ai Demoni?
I Demoni sono ricchi, e tu potrai avere bisogno di loro, ma loro vorranno qualcosa da te. Dovrai lavorare per i Demoni. I Demoni sono pericolosi, e il loro desiderio è quello di divorarti. Non devi rivelare i tuoi segreti ai Demoni. Il tuo segreto è ciò che ti rende forte. I Demoni ti dicono da soli come devi sconfiggerli. I Demoni possono aiutarti a distruggere i tuoi veri nemici.
Martina Corradi raffigura un affascinante demone femminile con un copricapo tradizionale russo, con lo sfondo di un cielo sulfureo in un cimitero di croci ortodosse, sulle quali è scritto in cirillico il nome di Kosciej Bezsmiertny. Crea uno scaccia-spiriti fatto di ossa, come la staccionata di Baba Jaga, ed aghi da cucito, la bacchetta magica di Vassilissa, ovvero l’oggetto capace di cambiare il suo destino. Mostra una Vassilissa metamorfica, che cambia continuamente volto. La rappresenta in un ritratto in cui appare di bellezza sovraumana, la testa avvolta in uno scialle finemente ricamato nei motivi pittorici della tradizione Hohlomskaja. La raffigura nell’impeto della passione della prima notte di nozze, mentre mostra il suo Sacro Cuore d’argento. Vassilissa viene ritratta mentre torna a casa con a lanterna col teschio dagli occhi di brace, in accoppiata con la gru, che simboleggia il trionfo sulla prova del labirinto e la rigenerazione. Nella lettura di Martina Corradi, lo Zar che sposa Vassilissa è Nicola II.
Nella realtà storica, Nicola II è stato un uomo debole. Un loser, basso e complessato, sempre a disagio in occasione di balli e cerimonie ufficiali. Perse la guerra in Giappone, perse la Prima Guerra Mondiale e fece parte dell’élite dei pochissimi sovrani che si fecero uccidere dal proprio popolo. Nicola si faceva manipolare da chiunque, fossero monaci carismatici, ministri o la gentil consorte. Fece uccidere molte persone durante gli scioperi e i moti di piazza del 1905. Venne assassinato assieme alla moglie, alle figlie Maria, Tatiana Olga e Anastasia, al figlio Aleksej, al medico del ragazzo, a due camerieri e a un cuoco. Morirono tutti in una cantina, a colpi di revolver, punte di baionetta, calci di fucile. I loro corpi vennero smembrati, cosparsi di acido solforico e bruciati. I corpi dello zarevic e di Anastasia non sono mai stati ritrovati.
A proposito di Demoni, Nicola II compare in un dittico assieme a Rasputin, il mistico taumaturgo mentore della zarina Alessandra, l’unico in grado di aiutare il piccolo zarevic Aleksej durante le crisi legate all’emofilia. Si crede che Rasputin ipnotizzasse il bambino e facesse battere il suo cuore più lentamente, arginando così le emorragie. Al primo incontro fra il monaco siberiano e lo zarevic in preda ad una crisi, si dice che Rasputin avesse tranquillizzato il bambino raccontandogli vecchie fiabe russe, del cavallo con la gobba, del cavaliere senza gambe e quello senza occhi, e della strega Baba Jaga. Molto alto, con occhi spiritati enormi e sfavillanti di cui si serviva per soggiogare il suo uditorio, scaltro manipolatore, sessualmente vitale ed iperattivo come un satiro, Rasputin ha la fama di aver sedotto un enorme numero di nobildonne di tutte le età. Faceva parte della setta degli Chlysty, che scacciavano il peccato immergendosi il più possibile in esso, tramite rituali orgiastici a base di sesso, preghiere, danze frenetiche e flagellazioni. Gli Chlysty più invasati arrivavano ad evirarsi sul ceppo usato per tagliare la legna ed uccidere le galline, servendosi di un’accetta e di un ferro arroventato, mentre le donne si tagliavano capezzoli e seni. Si dice anche che nei primi anni di predicazione, prima di approdare a corte, Rasputin fosse esponente dello jurodstvo, la follia per Cristo. Lo jurodstvo era un movimento mistico molto diffuso in Russia, una sorta di culto francescano portato all’estremo, i cui seguaci diventavano predicatori itineranti rinunciando a tutti i loro averi, anche quelli emotivi come l’onore e il rispetto, comportandosi in modo quasi bestiale, deforme (jurodstvo, da urod, jurod, “essere deforme”), vivendo fra la chiesa e la piazza, balbettando alla maniera dei bambini, nascondendosi dietro ad una follia simulata per poter trattare in modo violento i potenti e in maniera rispettosa tutti gli strati più miseri della popolazione.
Nel linguaggio dei tatuaggi tradizionali dei criminali russi, il Demone significa “odio e maledizioni costanti nei confronti dell’autorità”.Biesy (Бесы) è il titolo originale de I Demoni di Dostojevski.
Secondo Andrzej Potocki, agitatore culturale nei tempi del PRL, giornalista e studioso di etnologia popolare dei Carpazi, nell’antichità gli uomini non volevano insediare queste montagne perché erano un territorio interamente abitato dai biesy, i quali, non avendo anima viva a disposizione per le loro malefatte, si picchiavano, si ammazzavano e si stupravano fra di loro. I biesy sono frutto di una mutazione infernale, e possono avere una gran varietà di indoli diverse: gli uni sono intelligenti, gli altri stupidi, alcuni sono tranquilli, altri passionali, altri dispettosi, altri ancora indiscutibilmente malvagi e perversi. Le forze del bene si rifiutarono di andare nei Carpazi, perché avevano paura loro stesse di cadere in tentazione al cospetto delle depravazioni dei biesy. Quindi un’altra genia di demoni, i czady, che già occupavano quelle montagne assieme ai biesy, si risolsero a svolgere le funzioni benigne per poter ristabilire un equilibrio decente fra bene e male. Poi arrivarono gli uomini, e convissero fianco a fianco con i biesy. I biesy sono demoni mutaforma, possono trasformarsi in conigli bianchi, montoni neri, cavalli bruni o serpenti velenosi. Ma più di ogni altra cosa preferiscono trasformarsi in baldi giovini, per potersi congiungere carnalmente con le donne umane, vergini o sposate che siano. Ricompensato con un po’ di sesso infernale, il bies può rendersi molto utile alle sue amanti nei lavori domestici. Tiene lontano gli altri spiritelli ed assicura la prosperità, tanto che spesso i proprietari delle fattorie si procuravano un bies allevandolo, facendolo nascere da un uovo di tacchino che avevano portato per sette domeniche sotto l’ascella. Questo tipo di bies si chiamava “inclusus”. I biesy amano le bestemmie e non aspettano altro che di sentire qualcuno che mandi qualcun altro al diavolo, per poter rapire il malcapitato e sfinirlo con una notte di bagordi demoniaci, danze e carezze, fino a lasciarlo mezzo morto. I biesy odiano i cristiani di qualsiasi confessione, e più di tutto amano distruggere le chiese gettandovi sopra degli enormi massi. Molto spesso vengono disturbati in queste loro attività vandaliche dal canto del gallo, che li priva di tutte le loro forze soprannaturali, facendo loro cascare i massi appositamente trasportati dalle zampe, e facendo così sorgere rocce e massicci nel bel mezzo delle pianure. Questi demoni amano le profondità dei boschi e, per quanto amino il loro infernale ed ebbro frastuono autoprodotto, odiano il rumore degli uomini, soprattutto quello delle ferrovie e del progresso industriale in generale. Ai biesy piace anche spingere gli uomini all’omicidio. I biesy possono essere uccisi a loro volta. Dobbiamo ammettere che questa versione folklorica dei biesy, questi demoni silvestri, passionali, caciaroni, vagamente metallari nell’animo, ci piace moltissimo.
Di ben altra pasta sono fatti i biesy de I Demoni di Dostojevski. I demoni umanoidi sono assolutamente peggiori rispetto ai demoni selvatici del folklore, vogliono la distruzione del mondo e l’asservimento totale del genere umano, si dilettano a commettere omicidi e ad ammazzarsi fra di loro. Sono una masnada di rivoluzionari anarco-totalitari, in realtà fascisti con un ideale dittatoriale, per cui il novanta per cento della popolazione deve lavorare al più primitivo livello di sussistenza per mantenere il restante dieci per cento. Non per niente, per quanto I Demoni sia un romanzo profondamente antirivoluzionario, diventerà la lettura prediletta di Josef Stalin. Il capo dei rivoluzionari è il nevrotico, viscido e manipolatorio Pjotr Stepanovic Verchovenskij. Poi c’è l’allucinato purista del nichilismo Aleksej Kirillov, che passa tutte le notti a passeggiare su e giù per la sua stanza bevendo the, e che ha deciso di suicidarsi senza nessun motivo, solo per dimostrare la sua totale libertà conseguente alla non esistenza di Dio e all’irrilevanza della vita e della morte. Infine c’è Nicolaj Stavrogin, il principe dei Demoni, un magnetico psicopatico stupratore di bambine. Simona Forti, nel suo saggio I Nuovi Demoni, lo descrive in questo modo : “La somiglianza fra Stavrogin e Lucifero è senza dubbio evidente. Come l’angelo supremo, e caduto, anch’egli è dotato di tutti quei contrasti che fanno di lui non solo il più grande, ma il più grandioso dei dannati. Abbagliante e statuario, pure la sua bellezza nasconde il potere di un fascino demoniaco che, mentre respinge, attrae. Troppo pieno di sé per amare qualcuno, troppo intelligente per essere un fanatico, troppo disincantato per non avvedersi delle proprie colpe: tutto, in lui si inscrive sotto il segno di un eccesso.” Tutti i personaggi gravitano attorno a lui, e tutti quanti vengono rovinati da questa attrazione. Stavrogin rappresenta il male come spirito di negazione e distruzione di tutto ciò con cui viene in contatto, e sintetizza la concezione del male nel rapporto vittima-carnefice, come pienezza di potere del carnefice rispetto alla vittima inerme. In realtà, nonostante i suoi attributi , Stavrogin appare stranamente meno orribile di tutti i personaggi con cui si confronta, compresa la smaliziata e crudele Lizavjeta Nikolajevna, e lo starec Tichon a cui confessa il suo stupro, che considera il suo delitto ridicolo ed esteticamente poco elegante.
I Demoni è un romanzo pieno d’odio, nei confronti di molte cose e persone: Turgenjev, eterno rivale di Dostojevskij, caricaturizzato nel personaggio del verboso e grottesco poeta Karmazinov; la sfaccendata casta nobiliare, autoreferenziale, filo-occidentale, schiava delle etichette e delle opinioni e corrotta fino al midollo; la nuova gioventù russa degli anni Settanta dell’Ottocento, gli anarchici seguaci di Bakunin, nichilisti, edonisti ed annoiati epigoni del Divino Marchese. Ma è soprattutto odio di se stesso che Dostoievksij profonde ne I Demoni. Quando aveva ventotto anni, Dostojevskij andò in prigione, fu condannato a morte, finì sul patibolo, fu graziato dallo Zar all’ultimo minuto, scontò la commutazione della pena di morte al bagno penale e al servizio di leva obbligatorio per un totale di dieci anni, e tutto questo perché lui stesso era socialista e seguace di Fourier. Matrjosa, la bambina violentata da Stavrogin, accusa solo se stessa per quello che è successo, che lei non capisce, pensando di aver commesso uno “sfacelo”, di “ucciso Dio”. La scena della violenza, che ha ispirato Luchino Visconti per il personaggio di Martin ne La Caduta degli Dei, è presente in forma analoga in Delitto e Castigo, dove Svidrigajlov stupra una quindicenne sordomuta, che, come Matrjosa, si suicida per la vergogna. Si dice che Dostojevskij avesse confessato lo stesso crimine proprio a Turgenjev, che avrebbe accolto la confessione con freddezza, considerando già da diverso tempo Dostojevskij come “uno squilibrato”. Terribile segreto, o, più verosimilmente, inconfessabile ossessione.
Insomma, come dice lo starec Tichon, i demoni russi sembrano avere miriadi di forme. I vecchi dei si trasformano in mostri cannibali. I nuovi dei possono mandare un intero popolo al macello, proclamando che “la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”. I figli possono abbandonare i vecchi genitori a morire di freddo per non morire essi stessi di fame. Gli imperatori possono dare ordine di sparare sulla folla inerme. Le guardie del popolo possono ammazzare delle adolescenti a colpi di baionetta spuntata. Il potere può portare le persone ad odiare se stesse per ciò che hanno fatto, e i desideri inappagati possono trasformarsi in incubi ricorrenti. Nessuno è al riparo. Possiamo negare lo spirito della vita, possiamo ucciderci, possiamo impazzire, possiamo in ogni momento manifestare l’effetto Lucifero ed infierire sui più deboli come se fossero insetti. E questo perché non ci sono rimasti branchi di porci espiatori da mandare in sacrificio giù dalla rupe, e siamo costretti a portare sempre i nostri Demoni dentro di noi.
Testo scritto e curatela per la mostra “Бесы _ I DEMONI, di Martina Corradi, inaugurazione 12 aprile 2014 presso Cayce’s Lab