Tramontata è la luna, tramontate son le Pleiadi.
La notte è a metà, il tempo passa, e io dormo da sola.”
Saffo, VII/VI secolo a.c.
Little fish, big fish, swimming in the water
Come back here, man, gimme my daughter
Pj Harvey , Down By The Water
Fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di unguenti.
Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura.
Lo teme ogni essere più altero; egli è il re su tutte le bestie più superbe.
Giobbe, 41, a proposito del Leviatano
“Che morte! Che occasione! E che sorpresa. La mia volontà ha scelto la vita. (…) A volte, di notte, penso al mio pianoforte, nel profondo dell’oceano. E a volte penso anche a me, sospesa sopra di esso. Là sotto tutto è così fermo e silenzioso, che mi concilia il sonno. È una strana ninna-nanna. Ma è così, ed è mia. C’è un grande silenzio, dove non c’è mai stato suono. C’è un grande silenzio, dove suono non può esserci. Nella fredda tomba del profondo mare. “
“Non ho assolutamente orecchio. Riconosco con estrema difficoltà i suoni degli strumenti e canto malissimo ogni canzone (…). Però so cosa mi piace nella musica. A ogni canzone, per esempio, chiedo che sia – o perlomeno che contenga – una narrazione. Cioè vorrei che sia la musica sia il testo – mi accontento anche di uno solo dei due – facessero qualcosa, durante la canzone. Che crescessero d’intensità, per esempio, o che salissero e poi scemassero. Che avessero uno sviluppo, insomma: un prima e un dopo, un inizio e una fine.”
Edoardo Nesi, Storia della mia gente.
Non siamo mai stati dei fan sfegatati di Vinicio Capossela.
Poi, questa primavera, in un negozio di dischi a Milano, abbiamo notato un’immagine pubblicitaria. Pulitissima, veramente iconica. Un pastrano nero, un tricorno su una fronte aggrottata, un mare di ombre dietro. Poi, su K-Rock radio, hanno iniziato a passare delle canzoni, una più bella dell’altra, con cori di pirati ubriachi, storie di idoli acquatici e canti in sirenese. Insomma ci siamo presi il cd ad altezza settembre. “E’ darkissimo!! Un concept album sul mare e sulla morte. Prodotto da una sottocasa di produzione dalla Warner che si chiama La Cupa, con per logo una cornacchia!” Ne parlavamo così un po’ a tutti, e ci dicevamo che era un peccato non aver visto la tournée, il concerto a Modena quest’estate. Invece poi è venuto fuori che la tournée era ancora in atto, che c’era una data imminente al Valli di Reggio Emilia. Proprio nei giorni in cui disperavamo di trovare i biglietti abbiamo incontrato The Man In Black, che, dopo aver rovinato l’adolescenza e la vita dei nostri migliori cantautori, ha reso tutto questo possibile. Che assistessimo al concerto, “nel fondale spettacolare dell’abisso musicale”.
Sul palco quattordici costole di balena, animate: si aprono o si chiudono a seconda del messaggio di speranza o di tormento della canzone, oppure fluttuano in estasi d’amore. Dentro alla cassa toracica del balenottero sta una meravigliosa ciurma di musicisti, con gobbe di pesci e creature marine incastonate nelle giacche come ostriche sugli scogli. Giovani polistrumentisti già pronti a penzolare dalle forche, corifee con code d’argento ingaggiate sfidando il tabù delle donne a bordo, baritoni imbonitori con maglie a righe da marinaretto Gaultier, e poi l’addetto alle voci dei morti e delle sirene, un suonatore di theremin con delle basette a sbuffo bianco da far impallidire Henrik Ibsen. E infine, a capo della masnada di bucanieri, il capitan Vinicio, che a seconda del setting si cambia copricapo e paramenti, dal tricorno da ammutinato al cilindro da lord, dal gilet di pelo pecorino arcaico all’abbraccio rosso e glitterato del polpo d’amor. Il primo pezzo è Il Grande Leviatano. Misterioso, ambivalente nel significato, diviso da una netta cesura atmosferica, fra una prima parte fosca e una seconda che delinea musicalmente l’irrompere del sole in mezzo al nubifragio, Il Grande Leviatano racconta del ventre della balena, ovvero del fondo della sofferenza psichica. Il coup de theatre sta nel fatto che il mostro che tiene prigionieri e il liberatore divino si rivelano alla fine la stessa entità. Ecco che cosa svela il Coro degli Apocrifi, cioè coloro che sanno le cose che devono essere tenute nascoste.Procedendo per contrasti, subito dopo c’è L’Oceano Oilalà, una sorta di irish folk da ballare sottocoperta al Titanic, come viatico per salvarsi dal naufragio del secolo. L’Oceano Oilalà è un inno alla grandezza, alla forza e al coraggio, scritto per pirati campioni di umorismo e sangue freddo, che di fronte ai marosi non battono ciglio, se non per l’ammirazione. L’oceano è la cosa più grande che esista sulla terra, e la balena da colpire, in questo caso, è l’energia di cui bisogna appropriarsi per andare all’assalto del mondo. Incurante di fulmini e saette, la ciurmaglia dei filibustieri chiede a gran voce un po’ di benza, l’inebriante rum di Tortuga. E che sia hot and hellish, possibilmente con poca acqua e zero lime.
Poi il live diverge dall’ordine dei pezzi nel cd, configurando altre possibili chiavi di lettura. Parte l’allucinato blues dell’uomo morto in marcia Billy Budd, le sue ultime ore illuminate da una luna agonizzante, fra ossa, preghiere ed incubi. Billy Budd si chiede come sarà la deriva della morte e conclude che, ad un certo punto, diventerà come scivolare nel sonno.Lord Jim ha un inizio alternativo rispetto al disco, cioè il coro entusiasta dei freaks di Tod Browning. “Lo accettiamo è uno di noi! Lo accettiamo è uno di noi! Uno di noi! Uno di noi! Lo accettiamo è uno di noi!” Lord Jim ci racconta della caduta di un uomo, che perde la sua occasione, e al momento decisivo sbaglia. L’immagine superiore che l’aristocratico lord ha di se stesso va in frantumi. Jim si sente debole, si tormenta. Ma “a farsi giudici di sé non c’è più espiazione”. Per lord Jim rimane comunque la razza di Caino, il coro dei freaks, gli impuri che sanno bene come la conoscenza debba per forza passare attraverso l’errore. La bianchezza della balena è un maestoso pezzo sulla morte. Parte decostruendo le valenze del colore bianco, che solo apparentemente è purezza. Bianchi sono il Signore degli Elefanti adorato dai barbari Pegu, gli abiti delle spose e dei redenti, le pietre della felicità dei pagani, il trono di dio “bianco come la lana”. Ma anche gli squali, il coraggio che viene meno, gli albini a cui gli stregoni africani danno la caccia, i morti, gli spettri, l’ultimo cavaliere dell’apocalisse, “il re del terrore”, sono tutti bianchi. Ma, soprattutto, bianco è il vuoto. Si suppone che bianco sia l’ultimo fotogramma registrato dal cervello nel momento della morte. La Bianchezza della Balena fa corpo con I Fuochi Fatui, che dopo la teoria, la speculazione immaginaria, descrive la morte dal punto di vista pratico, come una lotta immane fra due forze. “Oh solitaria morte di una vita solitaria! Riversatevi ora qui, arditi flutti della mia vita trascorsa, e coronate questo grande maroso della mia morte”. I Fuochi Fatui raccontano anche di un’ossessione, quella del capitano Achab per Moby Dick, dell’odio, di come ciò che è immateriale come un fuoco fosforico possa condurre alla disfatta. I fuochi fatui sono infatti delle luci splendenti di chemiluminescenza, provocate dalla putrefazione dei cadaveri.
Subito dopo il palco si illumina di luci rosse che fanno venire in mente un deserto di bauxite, e parte la parabola di Giobbe, ambientata nella terra semitica che fa da confine fra Occidente ed Oriente. Alle sventure e all’ingiustizia, Job risponde “Il Signore dà il Signore toglie, sia benedetto il nome del Signore.” Al di là del contesto religioso, questo può essere benissimo anche un atteggiamento ateo, un orientamento filosofico verso la vita. In tutti i casi, la forza dell’uomo viene infine piegata. Job esplode in un orrendo grido di dolore, di delusione e ripudio della vita tutta, e ci rivela come la visione del dio degli eserciti si possa avere soltanto in mezzo alla catastrofe.
E insomma, a questo punto siamo proprio mostrificati, abissati, nel profondo del ventre del Leviatano. Per iniziare a risalire ci vuole un po’ di entertainment. Arriva l’organetto a manovella di Goliath, e parte il baraccone, il vaudeville, la danza letterina delle sirene, con i suoi picchi di euforia e depressione. Goliath è una macchina scenica per le visioni, fatta con la carcassa tassidermizzata di una balena, che non ha trovato altro modo di salvarsi se non quello di farsi imbalsamare. “La balena è un totem, del nostro sacrificio” Essendo una carcassa, Goliath puzza parecchio, della puzza dell’artista ambulante. E non è un caso: qua comincia la riflessione sulla prassi artistica. Su come serva a salvare la pelle, su come sia uno spettacolo da guardare, sulla sua funzione catartica, che sublima tutti i desideri, anche quelli di violenza e morte. Goliath, con il suo organetto di Barberia, cita il mostro spiaggiato de La Dolce Vita di Fellini, e mostra come l’arte serva per mantenere l’ordine, non solo sociale, ma anche mentale.Polpo d’amor racconta di un amante appassionato e timido, sperduto nel buio, che scrive messaggi d’amore talmente profondi che rischiano di confondersi con il nero degli abissi.
Pryntyll è la parabola di una sirenetta godereccia, prima donna piena di fattori x del balletto delle onde, amante del re del mare, il senescente Nettuno, detto sottocoperta Nunù. Pryntyll sa che sulla terra l’amore si trasforma in schiuma all’arrivo dell’alba, e quindi si getta nel vortice edonista dell’abisso: beautiful people, pesci pagliaccio, applausi di pinne e bolle, krill esilarante di qualità eccelsa. Un giorno però la sirena dal caschetto malizioso ha la malaugurata idea di sturare l’abisso e di rivelare gli scandali di corte. Pryntyll finisce la sua carriera nelle peggio bische di masnadieri, a guadagnarsi la birba-bamba alla lenza di ckracken e skunk, al soldo del pappone Testa di Morto. E ogni riferimento a fatti, escort e nani reali è puramente casuale.A questo punto il vascello dei bucanieri punta verso rotte cicladiche, per un tour nell’Antica Grecia dietro le rotte di una celebrity dei naviganti, ovvero il vecchio Ulisse. Arrivano in scena strane creature paniche, direttamente dall’Ellade pre-politica di Pier Paolo Pasolini, quella degli smembramenti e degli oracoli in trance. Vinocolo è la storia del pastore di crape Polifemo, cannibale senza malizia, troppo abituato alla solitudine dei greppi. La sua figura tragica ricorda quella dell’Asterione di Borges. Stordito dal vino di Merone, che sa di ferro e sangue, Polifemo viene orbato dalla luce del sole, come punizione per aver voluto “vedere da vicino” gli uomini. Il sospetto che Vinocolo abbia una base di pizzica, di quelle lente un po’ old-school, viene confermata dalla successiva Il Ballo di San Vito.La miscela dell’arte viene spiegata in Aedo: realtà, finzione, memoria, interconnessione, dono che rende diversamente abili. L’Aedo ci spiega che l’arte nasce dalla disgrazia, da un essere separati, da un non appartenere da nessuna parte, dalla sofferenza che ne deriva e dalla padronanza delle sue modulazioni.
Una delle ultime tappe del viaggio è quella dell’amore. La lancia del Pelide racconta del dramma sensuale della piccola morte. È sull’ambivalenza dell’amore, che fa ammalare quando si rovina. La lancia del Pelide è un’arma di tutto rispetto, da usare quando finisce il gioco per ragazzini armati di archi e frecce, e comincia la guerra campale.
Stesso percorso, con cuore più maturo e leggero per Calipso, con i suoi ritmi tropicali che fra luci e ombre ammiccano all’effetto narcotico dell’amore.
Le Pleiadi, messa in musica mozzafiato di Saffo e sua fusione con Penelope, configura un paesaggio di immobile siccità, un firmamento animato in cui “tutto si muove ma niente si muove davvero”. Da una parte la donna con la sua attesa, che sotto le Pleiadi e la luna intuisce l’inganno dei legami e delle attività per riempire la vita, dall’altra l’uomo, sotto la protezione della Croce del Sud, che avanza da solo. Due solitudini che si vengono incontro, o che forse prendono strade differenti. Le sirene, canzone di chiusura sia del live che del cd, condivide la stessa natura misteriosa con Il Grande Leviatano dell’apertura. Che cosa sono questi esseri? Creature notturne senza coda né piume, le sirene sono le voci interiori, più resistenti al cambiamento della terra scossa dal terremoto. Legano il presente con il passato e travestono il passato da futuro. Le sirene sono le guardiane della memoria, del rimpianto, di ciò che è definitivamente passato, dei ricordi felici, dei desideri irrealizzati, “di quello che hai intravisto e che non avrai”. Possono essere evocate da pozioni magiche, fra cui la birra. Le sirene sono capaci di curare la solitudine, di realizzare i desideri, ma solo per mezzo del canto. Il canto è incessante, pericoloso (perché le sirene possono essere molto cattive), parziale. Bisogna saperlo padroneggiare, perché è lo stesso canto dell’Aedo. La scelta rimane fra il canto e la vita. Per chi sceglie la vita è necessaria una buona dose di cera nelle orecchie e un massiccio albero di abitudini a cui legarsi. E soprattutto, la rinuncia alla parte migliore di sé, perché quella ce l’hanno le sirene.
La nostra prof d’inglese del liceo ci spiegava che il Re Lear, un po’ come la Divina Commedia o i poemi di Omero, sono opere cosmiche. Nel senso che dentro queste opere c’è come la totalità del mondo, tutte le sfaccettature dell’animo umano, tutti gli universali in cui ogni persona può riconoscersi. Marinai Profeti e Balene parla della conoscenza, della creazione artistica, della morte, del problema del male, dell’amore. A livello semantico, è mobile come una distesa di onde. Tutto cambia, a seconda del momento del viaggio. Le sirene sono splendide creature di piacere, oppure Moire che barattano il talento con la vita. L’amore è un monologo appassionato, un paradiso obsoleto da cui scappare, un magico dono che può uccidere o fare guarire. L’arte è un totem sacrificale, vero e finto, che toglie sia dalla morte che dalla vita. La morte è una lotta, ma anche una tregua. Il bombardone ambrato del coraggio può trasformarsi in un batter d’occhio nel vino che acceca per sempre. La balena è quell’energia che può diventare monomania ossessiva. I mostri che ci tengono prigionieri vanno ringraziati, perché sono loro che ci insegnano che cosa sono la forza e la libertà.
Non ci capita spesso di dire cose del genere, ma Marinai Profeti e Balene è un capolavoro. Durante il live, Vinicio Capossela l’ha dedicato a tutti quelli che Noè non ha fatto entrare dentro l’arca. Gli impuri, le sirene, i centauri, i mostri, i ciclopi, i mezzi e mezzi, i né carne né pesce, i fuori norma. E allora, tutti noi, felici di veleggiare sulla Perla Nera dei Freaks, non possiamo che fare ciao ciao con la manina, e dire grazie.