Le antinomie del nostro sistema logico contrappongono il buio alla luce e l’anima al corpo, ma se decidiamo di non sottometterci all’automatismo dell’opposizione e operiamo uno scambio di coppia dialettico, vediamo che luce e corpo possono funzionare benissimo come i due estremi di una struttura binaria.
Il corpo ha una consistenza opaca, è torpido e lento se paragonato ai fenomeni fisici del mondo, si può danneggiare facilmente, ed altrettanto facilmente dissolversi. È stabilmente collocato in un qui ed ora.
La luce invece è l’agente fisico più veloce che ci è dato di conoscere, viaggia senza bisogno di conduttori grazie alla natura elettromagnetica delle sue onde, è incorporea ed imperitura. La luce viene spesso usata come metonimia del Grande Altro rispetto alla finitezza umana, Dio, che rappresenta tutto quello che l’uomo non è. Per alcuni la luce è la vibrazione dell’onnipervasivo etere cosmico, una sostanza ondulatoria sottilissima, il modello ideale di ogni fluido.
Anche la filosofia cinese postula l’esistenza di una forza che satura l’universo all’interno di tutte le sue scale di grandezza, ovvero il qi. Per il microcosmo umano il qi è sia saggezza che memoria, ma anche funzionalità e vigore del corpo. Il qi distingue le essenze individuali dei viventi, ma nello stesso tempo forma un continuum energetico universale.
Questa forza cosmica è stata rappresentato da Chen Zhen fin dagli albori del suo iter artistico, nel trittico astratto su tela Qi flottant. Il concetto di qi può essere sovrapposto a quello di spirito. Se dobbiamo cercare nel corpo qualcosa di così etereo ed essenziale, esso potrebbe essere la nervatura elettrica che genera il movimento dei muscoli volontari ed involontari e gli scambi informatici del sistema neuro-corticale.
Elettricità, quindi.
Chen Zhen, oltre ad aver dichiarato che la creazione artistica nasce da un evento mentale simile al cortocircuito elettrico, nei suoi ultimi anni di vita ha prodotto alcune installazioni pervase da una luminosità eterica, interiore, proveniente da masse biomorfe. Questi lavori si legano fra di loro per morfologia e potenza evocativa, sono chiaramente intercontestualizzati.
In Field of Synergy vi sono sette bozzoli panciuti di filo plastico trasparente, intrecciati come canestri, illuminati da dentro con una luce bianco-neon. Le loro forme sono morbide e infantili, e le loro fattezze ricordano i primi stadi evolutivi del feto, un po’ come la struttura curvilinea e ripiegata su se stessa di Cocon du vide. Questi involucri sono imbrigliati dentro a dei lettini di ferro battuto, come congelati nell’attimo di un volo vorticoso, e sospesi intorno a una teca centrale. Al suo interno vi sono delle palline numerate, che vengono messe in moto da un ventilatore ogni volta che uno spettatore si avvicina.
Tutto sembra far riferimento alle declinazioni del sogno e del gioco, l’alea del numero da pescare, l’ylinx del vortice volante. Il fatto che il tabernacolo nel mezzo sia un letto matrimoniale cinese, la conformazione fragile dei bozzoli, una sorta di nebbiolina nel punto focale dell’installazione sembrano suggerire uno stadio prenatale in cui tutto è sospeso e fluttuante, aperto a possibilità infinite.
La stessa impostazione scenografica compare in Meme lit, reves différents: c’è il letto, dalla cui base scaturisce una luce calda e organica, la stessa che forse si vede dalla prospettiva interna nell’utero, e due ali di tessuto bianco splendente che si alzano ai suoi lati. All’interno del perimetro del letto si vede una sagoma umana con in evidenza i tracciati dei meridiani della medicina cinese, all’interno dei quali circola il qi. Ci sono tre diverse tipologie di energia che scorrono in questi condotti: una proviene dall’alimentazione, una dal respiro, e l’ultima, la cosiddetta “ancestrale”, viene stabilita nell’attimo del concepimento. Non a caso il letto centrale è diviso in due parti, una per l’uomo, e l’altra per la donna.
In Zen Garden abbiamo un recinto poligonale di legno (uno dei cinque elementari orientali assieme a terra, acqua, metallo, fuoco), al cui interno compaiono piante, sabbia, ghiaia, e dei grossi bozzoli bianchi e luminescenti, dalle linee flessuose. Il loro colore ricorda quello della massa cerebrale, e la loro forma, nonostante l’orientamento soft, ha qualcosa di tormentato e convulso, dovuto alla presenza di arnesi metallici. Questi ferri minacciosi sono gli strumenti del chirurgo, bisturi, forbici e divaricatori, e li attraversano da parte a parte. La loro fosforescenza ha delle zone livide e peste, in cui affiorano trame di rottura capillare, a suggerire qualcosa di anomalo, un malfunzionamento, una patologia1.
Chen Zhen ha detto che i cinesi amano procedere per vie traverse, allusioni, metafore, e che l’uso di un linguaggio indiretto è una strategia comunicativa fluida e potente che lui ha fatto propria nella sua poetica. Se si escludono i primissimi disegni allegorici degli anni Ottanta, Chen Zhen non ha mai rappresentato il corpo direttamente, ma sempre in maniera trasversale. Le masse embrionali dei lavori menzionati sono un’allusione al corpo, alle sue facoltà luminose ed infinite, e al suo dolore. A venticinque anni Chen Zhen è risultato affetto da una malattia del sangue2, che l’ha portato alla morte nell’anno 2000. Chen Zhen ha sempre mantenuto un atteggiamento reticente rispetto al suo stato, rivelandolo al pubblico solo poco prima della fine, ma nel suo lavoro sono rintracciabili indizi, tracce, codici apocrifi di sofferenza.
Jardin lavoir 3è stato realizzato in un ampio ambiente con le volte a vela, ed è composto da una teoria di letti da ospedale senza materasso. Nei basamenti dei letti ci sono vestiti, bottiglie e bicchieri, libri, elementi elettrici, oggetti che sembrano sotto vetro e in realtà sono immersi nell’acqua. La serialità del sistema ospedaliero annulla l’uomo, trasformandolo in un letto, un numero, imprigionandolo in uno spazio angusto come un acquario. L’essere umano, retrocesso a uno stato semi-vegetativo, non può far altro che aggrapparsi ai suoi piccoli “oggetti di compagnia”, e attendere che i composti chimici lavino via il suo male.
Il corpo di dolore è sottinteso anche nell’installazione Obsession of Longevity, fatta mediante letti cinesi con paravento innestati uno dietro l’altro, che delimitano due spazi adiacenti. Una è la stanza della speranza, piena di scaffali e barattoli contenenti polveri medicamentose, nell’altra invece c’è un materasso pieno di chiodi, che racconta di immobilità, degenza, dolore che inchioda e strazia.
In Table de diagnostic Chen ha posto dodici bacinelle chirurgiche su un banco ospedaliero, come a suggerire processi industriali di smembramento e cieca divisione del corpo.
Il tavolo diagnostico compare anche in Crystal Landscape of Inner Body, ma ciò che vi è esposto sopra è di tutt’altro ordine di bellezza. Viscere umane fatte di cristallo, organi liberati dalla carne, divenuti pura luce. Splendono come meduse fluorescenti, come il primo bagliore di vita nel buio del brodo primordiale. Sembrano pietre preziose. La luce disegna le loro forme e i loro volumi, e si riverbera dall’uno all’altro in particelle iridescenti. Chen Zhen sembra fare propria la massima taoista secondo cui “il saggio mette fuori il suo corpo e conserva il corpo”. Questa topografia organica di luce riflette il principio della medicina cinese per cui a ogni organo corrisponde un’orbita di energia, e il materiale impiegato ribadisce quanto questo equilibro sia fragile.
Globi di vetro, connessi per forma e materiale alle viscere trasparenti di Crystal Landscape of Inner Body, fluttuano nella parte alta di Le lumiére intérieur du corps humain. Il loro moto ascensionale sembra prefigurare l’attimo della morte, in cui il corpo, liberato dalla grevità della carne, diverrà un’unità virtuosa, un corpo di luce, un corpo senza organi.
La morte viene rappresentata anche in due opere del 1992.
In La voix du sommeil-Sleeping tao vi sono tre lettini funerari, tre teche di vetro contenenti detriti, illuminate da una luce rossastra proveniente da tre light-boxes, che trasmettono immagini dei detriti stessi. Tre come le parti in cui l’anima, secondo il confucianesimo, si divide al momento della morte: una rimane presso la sepoltura, una si invola verso le dimore celesti, e l’altra si lega alla tavoletta che rappresenta il defunto nel tempio domestico per il culto dei morti.
Una selva di urne cinerarie compare in Le retour des fantomes de l’homme: Find Reincarnation in Another Corpse. All’interno di queste scatole oblunghe vi sono ingranaggi meccanici in duplice forma: nuova, isolata e perfetta dal vero, rugginosa e integrata nel motore in fotografia. Questa installazione sembra alludere ad un corpo meccanizzato, logorato, efficiente solo se diviso nelle sue parti, un corpo che non può in alcun modo essere uno, e che va incontro al più orribile dei destini possibili post mortem, quello di rimanere imprigionato dentro ad un cadavere.
Se per il taoismo la morte può essere sconfitta dalla contemplazione e dall’estasi, Chen Zhen, percorrendo la strada che l’ha portato da queste installazioni paurose ai corpi di luce degli ultimi lavori, sembra essersi mosso verso questa meta. Perché l’estasi presuppone un andare fuori dal corpo, un valicamento del limite più insormontabile per l’uomo, quello della propria carne.
Chen Zhen, con l’estasi organica di Crystal Landscape of Inner Body ha spinto il concetto base della sua poetica, quello della transesperienza4, fino al limite estremo della trascendenza.
Pubblicato su il primo novembre 2008 su Succo Acido
NOTE
1 Nello studio preparatorio per Zen Garden emerge che questi conglomerati luminosi sono effettivamente organi umani, e che lo spazio del giardino è quello del corpo come tempio, nelle varie fasi di trasformazione che lo interessano. Vi compare anche il pentacolo della medicina cinese, in cui a ogni elemento è associata una coppia di organi.
2 Alcune fonti dicono leucemia, altre anemia emolitica autoimmune.
3 Giardino Lavacro.
4 Transesperienza è una sorta di saggezza sperimentale che può essere acquisita dal soggetto a patto che questo lasci il bozzolo protettivo della sua cultura d’appartenenza e viva in movimento costante. Il continuo scambio con l’Altro che ne consegue costruisce un’identità fluida, forte e magnetica, in cui tutte le frammentazioni esperienziali si unificano in “una padronanza olistica ed interconnessa dei diversi periodi ed avvenimenti di una vita caratterizzata da attività mobili e stratificate”. Nasce in questo modo una mente globale, un pensiero libero e aereo privo di categorie vincolanti e pesantezze strutturali.