TOTAL BLACK__ Storia sociale del colore nero__ Dall’Antichità al Medioevo


Kawanabe Kyosai Crow on a Snowy Plum Branch, 1880-1910 caNero. Il colore della terra fertile, della notte, delle ali del corvo. Nero è il carbone, il buio della morte, il colore in cui Mick Jagger vuole trasformare ogni cosa quando l’oscurità lo colpisce. Eddie Vedder ed Amy Winehouse lo cantano come il colore della perdita, della mutilazione, della fine dell’amore. La bile nera è quella che porta alla depressione psicotica. James Hetfield ha definito il suicidio dissolvenza in nero. La peste del Trecento, che falciò un terzo della popolazione europea, era chiamata la Morte Nera. Neri sono i pizzi e i paludamenti degli avventori del vecchio Condor, la discoteca dark di Modena che non esiste più. E poi i vestiti degli scolari, le vesti dei giudici, le tute di latex del Torture Garden, i tailleur di Armani. Nera è la scrittura. Nere le tenebre e le madonne più miracolose. Il black metal è uno dei generi musicali più estremi e satanici.  C’è la magia nera e c’è la messa nera. Nero è il caos indifferenziato dell’abisso primigenio. Nero è il diavolo. Il cavaliere in incognito. L’esistenzialista della Rive Gauche. Il puritano. Il poeta romantico che contempla la tempesta. Il ninja invisibile. L’occhiaia di Edgar Allan Poe. Il bistro di Theda Bara. Sono nere le vecchie siciliane. I film polizieschi pieni di ombre degli anni Quaranta si chiamano noir. La divisa di Johnny Cash portata per gloria dei poveri e dei falliti è nera, e in nero si veste la femme fatale cantata da Amanda Lear, che ama gli uomini ed ama soprattutto pugnalarli alla schiena. Il nero è stato un colore santo e diabolico, reazionario e rivoluzionario, totalitario, borghese, terrorista, moralizzante e creativo. Il nero è polisemico e complesso come tutte le cose che ci piacciono. È giunto il momento di dichiararci, ebbene sì, il nero è il nostro colore preferito.

L’ossatura di questo articolo si basa sull’imperdibile saggio di Michel Pastoureau, che ricostruisce tutti gli usi sociali del colore nero, dalla religione, all’arte, al mito, alla scrittura, fino ad arrivare alla moda, alla fotografia, al cinema, al design e alle controculture.


NERO ANTICO

Michel Pastoureau dichiara che “in principio era il nero”. Secondo la Genesi, prima che Dio creasse la luce, tutto era pervaso da questo colore primordiale. Il nero quindi ha preceduto ogni altro colore. A livello universale, è facile immaginare che lo spazio vuoto antecedente al Big Bang fosse nero, come anche, a livello particolare, lo sia la prospettiva del feto, con gli occhi chiusi all’interno dell’utero. Secondo la Genesi, Dio constata che la luce è cosa buona, e quindi, di conseguenza, il buio non lo è. Se consideriamo la storia delle religioni come una simbolizzazione della mentalità, delle abitudini e della visione del mondo dell’umanità, questo episodio biblico può derivare dal fatto che l’uomo non è mai stato un animale notturno, almeno finchè la tecnologia non gli ha permesso di trasformare la notte in giorno. L’essere umano ha istintivamente paura del buio, reame dei grandi mostri predatori e carnivori, degli spettri ritornanti dall’informità della morte e delle creature dell’inconscio. La risalita di questa china è iniziata cinquecentomila anni fa, quando gli esseri umani hanno cominciato a padroneggiare il fuoco. Sono proprio i residui del fuoco che forniscono agli uomini i primi pigmenti per le pitture parietali delle grotte, come il grande toro della grotta di Lascaux. Inizialmente gli artisti bruciano legni e gusci. Poi, per ottenere neri più profondi e brillanti, passano alle ossa e alle corna di animali.

Svariate raffigurazioni della Grande Madre vengono fatte su ossidiana nera, e nella notte dei tempi il nero è associato alla fertilità, perché è il colore della terra da cui germogliano i semi e crescono i frutti. I primi luoghi sacri degli uomini sono antri scuri, caverne, in cui si trova rifugio, in cui vengono celebrati rituali d’iniziazione, dove si conservano oggetti sacri e tesori. La caverna quindi funziona come una metafora uterina di trasformazione e rinascita.

Nel Neolitico piccole statue nere vengono utilizzate nei rituali funebri.

In Egitto il nero della terra fertile è contrapposto al rosso del deserto sterile. È un colore indice di rinascita, come la testa nera di Anubi, il dio psicopompo dell’imbalsamazione. Il nero è sacro ad Iside.

Non dimentichiamoci poi la notte, quella primigenia del mito. Essa assume vari nomi.

In Grecia abbiamo Nyx, che nelle ore buie sorvola il mondo in un giogo trainato da quattro cavalli neri, e di giorno si ritira in un caverna agli estremi limiti occidentali del mondo. E’ figlia del Caos, e madre di Urano e Gea, cielo e terra, delle Erinni, entità persecutorie atte a tormentare chi è colpevole di versamento di sangue, delle Parche, filatrici del destino umano, nonché della Vecchiaia, della Paura, della Discordia, dell’Angoscia, della Disgrazia, e dei fratelli Hypnos e Thanatos, ovvero Sonno e Morte. Fidia ha dedicato a Nyx una statua di marmo nero, e la vediamo comparire nel fregio di Pergamo. Nyx gradisce i sacrifici di armenti neri, come anche Ecate, Cibele, Demetra, Kali e Iside. Vicino alla sua dimora si trova Ade, il regno dei morti, dominato dal colore nero. Lo cinge l’Acheronte, fiume dalle muddy waters di gorghi fangosi e bruni. Cerbero ha il pelo scuro. Il trono di Ade è d’ebano.

Nott, figlia del gigante Norvi, è la dea della notte norrena, mentre Hel è quella degli inferi, dell’oltretomba riservato a chi non muore gloriosamente in battaglia, che invece va nel Walhalla. Hel è figlia di Loki, dio dell’inganno, e quando è venuta al mondo il genere umano ha conosciuto la malattia. Il suo aspetto è spaventoso, unisce attributi delle tenebre con attributi del mondo degli spiriti: metà del suo volto è nero, mentre l’altra metà è livida come se fosse un cadavere. Nonostante Odino la confini a regnare su un territorio gelido e desolato, Hel gli è riconoscente, ama il suo reame, e in cambio di esso regala al re degli dei norreni due corvi. Questi due corvi, Hugin, il Pensiero, e Munin, la Memoria, perlustrano il mondo per conto di Odino l’Onnisciente, riferendo ogni sera al loro padrone tutto quello che vedono. I Germani hanno il culto del corvo. Il corvo è anche il protettore dei guerrieri, i quali lo fanno raffigurare su armi, fibule e stendardi. Lo studio del volo dei corvi per scopi divinatori è comune sia presso i Germani che presso i Romani. Successivamente, i missionari proibiscono alle popolazioni germaniche di cibarsi di carne di corvo e di bere il suo sangue durante i banchetti rituali, poiché, come attesta la corrispondenza fra il papa Zaccaria e San Bonifacio apostolo in Germania e Frisia, i cristiani non possono mangiare uccelli neri, impuri, che si nutrono di carogne. Ora gli studi dimostrano che il corvo è uno degli animali più intelligenti presenti sulla terra, spesso più delle scimmie antropomorfe, e che quindi la connotazione cerebrale dei due vigilanti di Odino non è per nulla priva di fondamento.

Gli Antichi Romani utilizzano molto la bicromia per l’abbigliamento maschile, ed hanno svariati termini per indicare diversi gradi di bianco e nero. Per distinguere un colore rispetto all’altro è necessario considerare il suo grado di luce. Il bianco brillante e luminoso è candidus – parola che andrà ad assumere significati positivi in senso religioso e morale – il bianco opaco e sordo tipo guscio d’uovo è detto albus, da cui la parola albino e il nome di Albus Silente. Chi concorre per un seggio al senato porta una toga imbiancata con la calce, da cui la definizione candidatus. Il nero brillante come l’ossidiana è niger, mentre quello opaco e polveroso è ater, che andrà ad indicare ciò che è sporco, cattivo, brutto, triste, atroce. Il nero diventa il colore del lutto, con la toga praetexta pulla. La morte viene chiamata dai poeti hora nigra. Gli antichi romani amano molto anche dipingere le pareti delle case di nero, come attestano gli affreschi di Pompei. Per il pigmento nero viene utilizzato spesso il nero di vite, che dà risultati bluastri e profondi. Poi c’è l’ossido di manganese, che viene importato a caro prezzo dalla Gallia.


MEDIOEVO NERO

Nelle società tripartite, come quella greca, latina o medievale, il bianco viene generalmente associato ai sacerdoti, il rosso ai guerrieri e il nero ai contadini che, stando a contatto con la terra, assicurano l’approvvigionamento alimentare.

Per la civiltà cristiana, il nero si pone spesso (ma non sempre) in accezione negativa. L’Alto Medioevo eredita la concezione romana di un nero buono e di un nero cattivo, uno segno di temperanza e dignità, l’altro di dolore, peccato e morte. Nella Bibbia lo Sheol è l’inferno per i peccatori, luogo di dolore, stridore di denti e buio. Il corvo nero è messaggero di sventura e morte dopo il Diluvio. Nel Nuovo Testamento un epiteto del diavolo è Principe delle  Tenebre.

Alla fine dell’epoca carolingia il nero viene rivalutato come simbolo di penitenza e modestia, dopo essere stato adottato come tinta per il saio dei benedettini. Intorno all’anno Mille, le festività cristiane hanno una coloristica particolare: il bianco è associato alla Vergine Maria, agli angeli e a Cristo. Il rosso è il colore della Settimana Santa della Passione. Il nero è per le messe per i defunti, i periodi di penitenza come la Quaresima e di attesa come l’Avvento.

Col feudalesimo, in particolar modo dall’XI secolo in poi, prevale l’accezione negativa del nero. Si ritiene che il buio faccia parte dei castighi infernali, e il nero diventa definitivamente il colore del diavolo (che prima era stato policromo). Anche il viola e il blu vengono assimilati al nero, e per questo motivo il blu continuerà ad avere una cattiva fama per molto tempo, prima di essere riabilitato come colore del manto della Madonna. Nelle arti figurative il nero dei diavoli, di Satana in particolare, è sempre il più saturo di tutta la composizione, che sia affresco o miniatura, e sembra assorbire tutta la luce circostante.

Poi ci sono tutti gli animali del bestiario del Principe delle Tenebre. Una delle caratteristiche più peculiari della mentalità medievale è il simbolismo, per cui tutto ciò che appare nel creato è un messaggio di dio, da decifrare conoscendo il codice dei simboli.

Il corvo saprofita è considerato un animale malefico: i Padri della Chiesa lo ritengono molto vizioso, memori forse di tutta la fatica che avevano dovuto fare i loro colleghi per sradicare il suo culto.

L’orso è ritenuto simile all’uomo, come la scimmia nelle zone dell’Africa e dell’India. Fra i Celti, i Germani e gli Slavi ci sono molti culti guerrieri dedicati all’orso. La sua carne e il suo sangue sono cibo consacrato da consumarsi prima delle battaglie, per appropriarsi della sua forza e del suo coraggio. Stirpi reali millantano origini ursine, con antenate rapite dagli orsi e congiuntesi con loro. Pertanto la Chiesa lo demonizza, e Sant’Agostino afferma che “l’orso è il diavolo”. È scuro di pelo, e ogni inverno sprofonda all’inferno, per farsi il letargo al calduccio.

Il gatto, per le sue abitudini notturne, la sua bellezza flessuosa e i suoi occhi fosforici, viene guardato con sospetto e, nonostante la sua utilità come cacciatore, per molto tempo per cacciare i topi gli si preferisce la donnola. Alla fine del XV secolo papa Innocenzo VII scomunica tutti i gatti, mentre due secoli prima Gregorio IX aveva proclamato ufficialmente che i gatti neri sono forme assunte dal Maligno nel mondo, e che quindi vanno sterminati tramite rogo, crocefissione, o scorticazione. La notte di San Giovanni migliaia di gatti vengono arsi vivi in gabbiette poste sulle piazze principali delle città, o gettati giù dai campanili.

Il cinghiale, a cui venivano tributati i culti della Grande Madre, viene massimamente demonizzato, i predicatori lo ritengono una vera e propria incarnazione di Satana, per il pelo nero, le zanne, e la puzza.

A livello pittorico e letterario, i personaggi negativi vengono raffigurati con la pelle scura. Avviene con Giuda, il traditore di Cristo, rappresentato con i capelli rossi e scuro di pelle. Nelle canzoni di gesta vengono spesso descritti i saraceni, e vale la regola per cui più un personaggio ha una pigmentazione cutanea tendente al nero più è malvagio. Verso la fine del Dodicesimo Secolo, i seducenti protagonisti dei romanzi cortesi sono tutti biondi e pallidi, luccicanti per le armature e gli abiti sfarzosi, e la loro bellezza viene esaltata dal contrasto coi contadini, sudici e scuri come Mori.  Insomma, nel campo della rappresentazione medievale, i capelli, gli occhi e la pelle scura vengono riservati a personaggi come boia, usurai, assassini, prostitute, saraceni, maghi e lebbrosi.

Nella prima metà del Dodicesimo Secolo avviene la diatriba cromatica fra monaci bianchi e monaci neri.

Per San Benedetto, fondatore del monachesimo nel VI secolo, gli abiti dei monaci devono assomigliare a quelli dei contadini, a motivo di umiltà, e quindi non vanno tinti. In epoca carolingia però l’abito benedettino è già una sorta di divisa, se non nera, comunque di colori scuri. Non dimentichiamo che, fino al XIV secolo, nessuno era in grado di ottenere delle tinte tessili veramente nere. I benedettini adottano il nero perché è il colore della penitenza, e per questo tutti li chiamano monachi nigri. Nell’XI secolo è già affermato l’impero cluniacense, quindi nascono gruppi di fuoriusciti che vogliono ritornare all’austerità delle origini, come i camaldolesi o i certosini. Spesso, a livello iconografico, questi dissidenti si ispirano all’outfit di San Giovanni Battista, con pellicce grezze di capra e lana ispida non lavorata né tinta. Per la tavolozza naturale che indossano, vengono chiamati monaci grigi. Anche i cistercensi iniziano come monaci grigi, e poi passano al bianco. I cistercensi sono ostili ai colori, al fasto e alle decorazioni, le loro chiese sono monocrome e disadorne.

San Bernardo di Chiaravalle, fondatore dell’ordine, odia l’oro e l’oreficeria, le vetrate e le miniature policrome, ed è cromofobo. Pertanto decide di far vestire i suoi adepti di bianco. In realtà, fino al XVIII secolo è stato impossibile avere un bianco tessile puro, perché non si conosceva il procedimento a base di cloro. Ci si poteva accontentare di tinte naturali sbiancate, che tendevano a diventare color panna, ecrù, o grigio, con metodi lunghi e difficoltosi, ad esempio utilizzando l’acqua ossigenata della rugiada mattutina.

Pietro il Venerabile, abate di Cluny amante del lusso estremo, paludato nel suo saio nero foderato di zibellino, sostiene che la scelta dei cistercensi sia indecente e contraria alla tradizione. Accusa violentemente San Bernardo di Chiaravalle di superbia, perché il bianco fino ad allora veniva utilizzato solamente per liturgie solenni, mentre i cluniacensi si vestono umilmente di nero secondo la regola benedettina. San Bernardo di Chiaravalle ribatte che il nero è il colore della morte e del peccato, mentre il bianco è simbolo di candore.

Nasce in questo modo l’opposizione fra il bianco e il nero. Fino a quel momento, bianco e nero non erano considerati opposti. Il rosso e il bianco lo erano.

La strada della rivalutazione del nero, che avverrà in età moderna, viene spianata alla metà del XII secolo, quando nasce l’araldica. L’araldica è composta da segni distintivi nella livrea militare, richiesti dai nuovi elmi ed usberghi che celano completamente i lineamenti dei cavalieri, che quindi devono essere riconosciuti tramite i loro scudi. Gli stemmi hanno un grande successo sociale, tanto che nel XIII secolo anche gli artigiani e il clero iniziano ad utilizzarli. L’araldica si compone di figure e colori, ma i colori utilizzati sono solo sei, ovvero bianco (argent), nero (sable), giallo (or), rosso (gueules), blu (azur) e verde (sinople). La parola che indica il nero, sable, viene dalle lingue slave ed indica la pelliccia di zibellino, che nel Medioevo è molto ambita e commercializzata come oggetto di gran lusso, di cui fanno uso i nobili russi e la szlachta polacca. L’imperatore del Sacro Romano Impero mette su campo oro un’aquila nera bicefala. Quindi, è proprio grazie all’araldica che si comincia a nobilitare il nero e a sottrarlo alle connotazioni demoniache. Nell’ambito letterario poi iniziano a comparire nei romanzi cavallereschi e cortesi misteriosi cavalieri in nero, con scudo de sable plain, cioè completamente nero. Essi non sono personaggi negativi, ma spesso sono gli stessi eroi, come Lancillotto, Galvano o Tristano, in momenti in cui sono costretti a celare la loro identità allo scopo di far progredire la narrazione. Anche Walter Scott nel suo Ivanhoe farà vestire di nero nientemeno che Riccardo Cuor di Leone di ritorno dalla Terrasanta. Di solito il cavaliere malvagio è quello rosso, come avviene anche nel cinema contemporaneo con La leggenda del Re Pescatore, favola medievale di redenzione ambientata a Manhattan.

Alla fine del XIII secolo entrano nella scena dell’immaginario collettivo nuovi personaggi, come la Regina di Saba, e gli artisti la raffigurano “nera ma bella”, come la protagonista del Cantico dei Cantici. La pelle bruna diventa per la prima volta un attributo esotico, cioè indice di una diversità intrigante. Le culture iniziano a mescolarsi e capita che i musulmani si convertano al cristianesimo.

Nella seconda metà del XIV secolo il re magio Baldassarre, che rappresenta l’Africa, inizia ad essere raffigurato con la pelle nera. Poi c’è san Maurizio, un santo cavaliere originario dell’Egitto, con lineamenti e pelle da africano, come si vede nella sua statua della cattedrale di Magdeburgo. San Maurizio è un soldato romano che subisce il martirio sotto l’imperatore Massimiano, per essersi rifiutato di sacrificare agli idoli. Contende a San Giorgio e a San Michele il protettorato della classe dei cavalieri, e protegge i tintori, per la difficoltà che essi avevano a tingere le stoffe del colore della sua pelle.

Il bianco è diventato uguale e contrario al nero per gradi. Come preliminare c’è stata la disputa cromatica fra cistercensi e cluniacensi, ma la prima tappa vera e propria è stata l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Si inizia ad utilizzare un inchiostro nero resistente, grasso, brillante, molto diverso da quello vergato a mano dagli amanuensi, che poteva essere rimosso tramite un raschietto.  L’inchiostro da stampa penetra in profondità nelle fibre della carta, e non scolorisce, grazie alla pesantezza delle presse ispirate a quelle dei vignaioli renani e alle reazioni chimiche dovute alle nuove sostanze. Ogni tipografia ha la sua ricetta segreta, ma tutte sono simili a quella messa a punto da Gutenberg durante il suo soggiorno a Strasburgo nel 1440, che viene utilizzata quindici anni dopo per la Bibbia delle 42 righe.  Tendenzialmente questa ricetta prevede come base quella degli amanuensi, nero d’avorio o di legno di vite, diluito in acqua o vino, e reso corposo da un legante come miele, gomma arabica, caseina, olio, o bianco d’uovo. A ciò viene aggiunto olio di lino, solfato di ferro o di rame e sali metallici, e grazie a questi nuovi ingredienti avviene una reazione chimica fra la carta e l’inchiostro che lo rende indelebile, come attestano i quarantanove esemplari superstiti della Bibbia di Gutenberg, perfettamente leggibili dopo più di cinquecentocinquanta anni. Il nero delle tipografie è onnipervasivo, si attacca ovunque e spande in ogni dove il suo caratteristico odore. I tipografi diventano una categoria di operai scomoda e turbolenta, sono sempre di fretta, neri dalla testa ai piedi come i carbonai, e le autorità li considerano pericolosi perché per la prima volta si tratta di manovalanza letterata. I loro laboratori non devono assolutamente trovarsi nei quartieri alti, perché sembrano fucine infernali. Assieme all’inchiostro, è la carta che determina la nascita di un mondo in bianco e nero. Inventata dai cinesi, viene importata in Europa dagli arabi, la troviamo alla fine dell’XI secolo in Spagna e all’inizio del XII in Sicilia. Inizia ad essere quindi utilizzata per atti notarili in Italia, Francia, Inghilterra e Germania. L’industria della carta si sviluppa in parallelo con quella tessile orientata alla produzione di camicie, ovvero gli indumenti intimi usati da uomini e donne, dai cui scarti si fabbrica il materiale cartaceo. Fino alla fine del Diciottesimo Secolo la carta rimane un oggetto costoso. Con l’invenzione della stampa, il colore della carta vira dal beige, al bianco ghiaccio, fino al bianco vero e proprio. Nero più bianco puro sarà un connubio che determinerà una vera e propria rivoluzione dell’immagine. Se le immagini medievali sono tutte policrome, quelle moderne tendono ad essere in bianco e nero. A metà del XIV secolo viene inventata la xilografia, e dal 1460 viene integrata nella produzione di libri. Il bianco e nero delle xilografie e delle incisioni permettono di ottenere grandi effetti di ritmo, ombreggiatura, brillantezza, densità, e tutto ciò mediante un sapiente utilizzo e una calibrata giustapposizione di linee, che possono essere doppie, spezzate, intersecanti, curve, sottili o grosse.


[La bibliografia completa sarà disponibile nella seconda parte del pezzo, sul colore nero nell’Età Moderna e nella contemporaneità. Stay tuned!]


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